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De Profundis, per una città che non c’è più

- 27/09/2025
messina
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di Giuseppe Bevacqua

​Ci sono città che muoiono di peste, di guerra, di oblio. E poi c’è Messina, che ha scelto un suicidio più lento, quasi svogliato, consumato giorno dopo giorno nel baratto quotidiano della dignità per un quieto vivere che quieto non è, ma solo silente. Un rantolo lungo decenni che oggi, a chi ha orecchie non più disposte a sentire menzogne, suona come il silenzio definitivo.​

Non si cerchi un colpevole con la pistola fumante. Sarebbe un’offesa all’intelligenza e una comoda assoluzione per i più. Qui la colpa è un morbo che ha contagiato tutti, un’architettura complessa di silenzi, di sguardi bassi, di mani tese non per chiedere giustizia ma per mendicare un favore. Il “posto”, la “sistemazione”, la piccola convenienza che diventa l’unica, asfittica, unità di misura del vivere civile.

E intanto, i legacci che da lustri strangolano questa terra si sono fatti di acciaio, manovrati dalle stesse, stanche mani di famiglie e faccendieri che scambiano il bene pubblico per il salotto di casa.​Eppure, uno si sforza di ricordare. Cerca tra le macerie della memoria un fremito, un sussulto di quella che fu non una città, ma un’idea. L’estro degli artisti, le discussioni febbricitanti alla libreria Ospe, l’arguzia goliardica e dotta del Sacer Ordo Zammarae.

Si ricorda persino un popolo capace di bloccare gli sbarchi, di fare muro per la profana religione di un pallone, unito in un’unica voce di rabbia e d’amore per una squadra che, come tutto il resto, non esiste più.

Erano forse le ultime convulsioni di un corpo che già si stava arrendendo.

​Poi, la grande svendita. Hanno preso i migliori, i più brillanti, e li hanno messi di fronte a una scelta che non è una scelta: l’esilio o il tradimento di sé. Vendersi per non morire di fame. E chi siamo noi per puntare il dito contro chi ha scelto la sopravvivenza? Il dramma vero non è la loro caduta, ma l’assenza di un popolo capace di offrire loro un’alternativa, un motivo per restare, per combattere. Un orgoglio da difendere.

​Ma l’orgoglio, a Messina, è merce rara. Si preferisce voltare le spalle a chi la difende davvero, a chi urla la verità contro il muro di gomma di un sistema fondato sulla menzogna. Si isola, si deride, si lascia solo chiunque osi disturbare il manovratore, sperando che il silenzio compri un altro giorno di pace apparente. È l’eterna, desolante guerra tra poveri, orchestrata da mediocri registi che si nutrono della divisione.​

Oggi, affacciarsi a guardare quello Stretto, la cui bellezza un tempo consolava ogni amarezza, provoca solo nausea. Quel panorama magnifico è diventato lo sfondo ipocrita di un cimitero a cielo aperto. È avvelenato dallo sguardo muto di chi sa, di chi vede lo scempio del “Provinciale” di turno, ma si gira dall’altra parte, mormorando tra sé e sé che, in fondo, non è affar suo.

​No, non è più affar mio.

A questa città ho dato parole, battaglie e un amore che essa ha ricambiato con indifferenza. Non mi si chieda di partecipare al lutto, di recitare il rosario delle speranze perdute. La speranza è un lusso per chi è ancora vivo.

Messina è morta.​

Domani andrò a deporre un fiore sulla sua tomba.

messina cicala
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