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Nino Principato “Le trasformazioni urbane a Messina dopo il sisma del 1908. Il terremoto, le distruzioni, le demolizioni”

- 23/10/2024

Dell’Architetto NINO PRINCIPATO – tratto da professione-ingegnere.it

Il terremoto del 28 dicembre 1908, alle ore 5, 21 minuti e 42 secondi, trovò una città che, in
massima parte, non si può certo affermare fosse sismicamente sicura dal punto di vista costruttivo- strutturale. La struttura portante degli edifici era in pietrame e muratura di mattoni con travature di legno o ferro. Le volte dei solai erano realizzate con putrelle in acciaio a doppio “T” e volterrane curve in laterizio e le coperture, generalmente a tetto ligneo con capriate e manto di tegole in coppi siciliani. L’elevazione media, di due o tre piani, nei Quartieri Nuovi della “Mosella” (a sud di piazza Cairoli) raggiungeva anche il numero di cinque piani fuori terra.
Tutta una serie di circostanze negative dal punto di vista strutturale, poi, era costituita dalle
sopralevazioni, dal materiale di pessima qualità adoperato per le murature, dal pessimo sistema costruttivo, dall’inadeguata profondità delle fondazioni, dalle masse murarie di pietrame rotondo e quindi di scarsa coesione, dal terreno alluvionale recente e di riporto, che non soddisfacevano ad alcun requisito antisismico (il villino Cammareri nel viale San Martino, invece, costruito con sistema misto usando il rivoluzionario “Sistema Hennebique”, embrione delle strutture intelaiate in cemento armato, rimase completamente intatto e fu demolito nel 1931 per far posto a Palazzo Salvato di Camillo Puglisi Allegra, che ancora esiste ad angolo con la via Santa Cecilia).

Tuttavia, la violentissima scossa del decimo grado della scala Mercalli (disastrosissima) e le
successive, non rasero al suolo quasi totalmente la città, come fino ad ora si è sempre detto e scritto.
La verità è quella che almeno il 30 % degli edifici era rimasto pressoché intatto, danneggiato e comunque non in maniera così grave da giustificarne le indiscriminate demolizioni. Nonostante le dichiarazioni di morte dell’on. Napoleone Colajanni: “La bella città eroica è morta per sempre. Non si può pensare a riedificarla. Per sgombrare le macerie occorrerebbero quasi tanti milioni, quanti ne sarebbero necessari per ricostruire gli edifici e ciò non è possibile. Messina resterà solo come testa di linea ferroviaria per le comunicazioni col continente. Vano è pensare diversamente. Io questo dirò alla Camera” e del senatore Paternò, allora vice presidente del Senato: “Messina sarà un immenso cimitero. È la fine luttuosa di una delle più belle, ricche e popolose città d’Italia. La sua ricostruzione si farà in un altro punto con diversi sistemi”, la mattina del 7 gennaio, sotto la tettoia della stazione ferroviaria, i deputati Ludovico Fulci e Giuseppe De Felice riunirono i membri sopravvissuti della Deputazione Provinciale, proclamando un ordine del giorno che affermava “[…] essere un dovere storico e nazionale il Risorgimento di Messina” che doveva essere ricostruita com’era e dov’era.


Ma, intanto, si demoliva dissennatamente e senza motivo quanto (ed era tanto) era sopravvissuto quasi indenne al terremoto; per citare qualche esempio: il convento di San Francesco d’Assisi poi Palazzo delle Finanze di Giacomo Minutoli (oggi vi sorge l’Intendenza di Finanza);

il Palazzo del Priorato dell’Ordine di Malta, poi Prefettura, di Leone Savoja (1877); l’ottocentesca Camera di Commercio di Giacomo Fiore e Giuseppe Munagò (oggi, in parte, vi sorge il Municipio);

l’Istituto “Cappellini” fondato nel 1791 per avviare 40 orfani poveri all’esercizio di dieci mestieri, con adiacente chiesa di Gesù e Maria di San Giovanni (al suo posto, oggi, sorge la Caserma dei Carabinieri “A. Bonsignore”); la monumentale, intatta chiesa di Sant’Andrea Avellino ispirata al Pantheon (1851) di Antonio Tardì (oggi sede stradale del tratto di corso Cavour tra via Garibaldi e viale Boccetta); il nobiliare settecentesco Palazzo Avarna di Belviso in piazza Annunziata, alle spalle della statua di Don Giovanni d’Austria (oggi anonima palazzina degli anni Settanta);

la chiesa di Santa Chiara (1856) di Leone Savoja (oggi sede del Palazzo della Cultura); la preziosa chiesa di San Gregorio (1688) col campanile del 1717 e le finestre disegnate da Filippo Juvarra (oggi degradato quartiere baraccato);
la chiesa della Maddalena (1765) dell’architetto romano Carlo Marchionni (oggi edificio della Casa dello Studente); l’imponente chiesa delle Anime del Purgatorio (oggi sede stradale di via Garibaldi, tra il Banco di Sicilia e la chiesa dei Catalani); la medievale chiesa di Santa Pelagia (oggi piazza Basicò); il cinquecentesco Palazzo Grano, già dei Balsamo principi di Roccafiorita, di Andrea Calamech (oggi palazzina popolare in via Romagnosi); il seicentesco Palazzo Brunaccini dei principi di San Teodoro dove alloggiò Wolfgang Goethe il 10 maggio 1787 (oggi palazzina privata nel corso Cavour); il cinquecentesco Grande Ospedale di Antonio Ferramolino da Bergamo (oggi Palazzo di Giustizia); la quattrocentesca chiesa, con annesso monastero, di Santa Maria di Basicò, quasi illesa insieme ai begli affreschi sulla volta del Tuccari, demolita per far posto all’attuale Rampa della Colomba che conduce al Santuario di Montalto

In quei giorni, il benemerito studioso di storia patria Gaetano la Corte Cailler teneva un diario
dove registrava, puntigliosamente, tutte le criminali demolizioni operate scientemente dal Genio Civile (pubblicato a cura di Giovanni Molonia, edizione G.B.M. per l’Istituto di Studi Storici “Gaetano Salvemini” di Messina, Messina 2002).

Prima fra tutte, per particolare efferatezza, la distruzione del preziosissimo atrio medievale di via Rovere nei pressi di piazza Duomo:

14 Febbrajo (Giovedì) [1912]. Scrissi al R. Commissario interessandolo perché venga conservato l’atrio medioevale di Casa Cammareri”.

26 Febbrajo (Lunedì) [1912]. Oggi il Genio Civile compì un altro dei suoi vandalici atti, al coperto della legge. Minò e fece saltare in aria l’atrio medioevale, bellissimo e conservatissimo, che c’era nella Casa Cammareri in Via del Rovere! Mascalzoni!”.

Una triste lista di demolizioni dietro la quale, oltre ad una sporca questione di interesse privato che il La Corte non mancava di evidenziare con aspri toni accusatori, stava in agguato la
speculazione edilizia sulle aree fabbricabili e le forti pressioni massoniche ed anticlericali per abbattere quel che restava in piedi di chiese e fondazioni religiose.

Vale la pena riportare i passi salienti di questo scempio legalizzato, attraverso le parole dello studioso messinese: “31 Ottobre (Martedì) [1911]. Oggi, a Policara, la Ditta Salvago ha chiuso i conti della fornitura di dinamite e capsule al Genio Civile per le demolizioni in Messina dal 4 febbrajo 1909 ad oggi (Kg. 22.650, n.d.r.)… L’Ing. Ermes D’Orlando può andar contento! Esso ha distrutto Messina più del 28 Dicembre, ed al Salvago (cognato dell’Ing. Capo Ghersi, n.d.r.) ha fatto fare affari d’oro!! Al resto, ora!”.

19 Gennajo (Venerdì) [1912]. L’ing. Ermes D’Orlando ordina al Salvago 700 Cg. di dinamite, a 100 Cg. al giorno, per cominciare la demolizione di quanto resta del Civico Ospedale, già in gran parte abbattuto non dal terremoto, ma dalla dinamite…E perché, intanto, distruggere completamente un vastissimo e robusto edifizio, i cui pianterreni sarebbero ancora utilizzabili tutti? Oh infamia! Sol per fornire guadagni al Salvago, cognato dell’Ing. Capo Ghersi?”.

31 Gennajo (Mercoledì) [1912]. La demolizione dell’Ospedale continua con sforzi enormi. Le mura colossali non vogliono cadere!”.

1 Febbrajo (Giovedì) [1912]. Bombe colossali abbattono stamane l’angolo dell’Ospedale sulla via Porta Imperiale, a tramontana, ma manca la dinamite e l’Ing. D’Orlando ne chiede altra al Salvago per domani.”.

2 Febbrajo (Venerdì) [1912] La Chiesa dell’Ospedale cadde oggi, con tutta la facciata, alle ore 12,40 dopo vari spari di dinamite. Il resto del prospetto dell’Ospedale, da quel lato, cedette alle ore 16,50. In complesso, si consumarono circa 1000 Cg. di dinamite a £ 5,50 il chilo!”.

4 Novembre (Sabato) [1911]. Si demolisce la chiesa di S. Bartolomeo, della quale eran caduti la volta e la parte superiore del prospetto, al che s’era riparato subito, tanto che la chiesa funzionava, anche con un campanile provvisorio in legno. Tutto si va radendo al
suolo! ma i preti hanno i torti maggiori: non sanno resistere!!” (la chiesa era anche detta “Immacolatella”, sede della Confraternita degli acconciatori di cuoio. Occupava parzialmente l’area dell’is. 218, in via Ghibellina, quasi all’angolo con via Tommaso Cannizzaro, n.d.a.).

11 Novembre (Sabato) [1911]. Ferve agitazione perché S. Giovanni di Malta lo vogliono demolire a forza. Il Comitato diocesano si occupa della cosa e non si sa come andrà a finire.”.

13 Novembre (Lunedì) [1911]. L’agitazione è giustificata, perché il Prefetto scrisse al canonico Scarcella perché sgombri subito il Santuario (S. Giovanni di Malta, n.d.r.) dovendolo minare d’urgenza! Lo Scarcella venne da me, ma il R. Commissario è d’accordo per la distruzione di tutti i monumenti di Messina, ed io non so che fare.” .

29 Novembre (Mercoledì) [1911]. Oggi il Prefetto con l’Ing. Ghersi si sono recati a visitare S. Giovanni di Malta, ma siccome non c’erano le chiavi del santuario (che le detiene l’Arcivescovo) così non poterono vedere che la sola chiesa. Il Prefetto si persuase che l’edificio potrebbe
restare, ma il Ghersi insistette sempre per la demolizione. In ogni modo, tutto è sospeso per adesso.”.

6 Dicembre (Mercoledì) [1911]. Il Genio Civile fece saltare in aria il Palazzo La Corte, baroni di Ciurrame, che era all’angolo tra Via S. Camillo e Corso Cavour. Questo robusto e bel fabbricato (già degli Spadafora principi di Maletto) nel 1812 era stato rifatto dai miei antenati i quali vi avevano conservato le belle mensole del balcone, scolpite dal Calamecca: Quelle mensole or sono nella Villa La Corte a Gazzi: io le ho fotografate. L’edificio rimase intatto il 28 dicembre, ed ora resistette a lungo alla dinamite: fu demolito perché sorgerà in quel posto il nuovo edifizio municipale del Calderini.” .

“15 Gennajo (Mercoledì) [1913]. Era rimasta intatta (meno la facciata) la bella chiesetta della Grazia, a Porta Real Basso. E la bella cupola cinquecentesca era intatta, anche perché la chiesa poggiava tutta sull’antico muraglione della città, attaccato al Castello. Ma stamane si cominciò a demolir tutto…! fu vana quindi la mia viva raccomandazione al Salinas!!! tutto poteva
restare, ma…era una chiesa, e bella per giunta!”.

“23 Febbrajo (Domenica), [1913]. Si ha grande interesse di demolire la chiesa di S. Andrea Avellino che essendo intatta minaccia di essere riaperta al culto”.

Antonio Salinas, archeologo e numismatico (Palermo 1841 – 1914), Soprintendente dei Musei e dei Monumenti di Palermo, che insieme al La Corte Cailler riuscì a sottrarre alla parossistica furia demolitrice pochi, sparuti monumenti come il pregevole tempietto di San Tommaso Apostolo, detto “il Vecchio”, di impianto prenormanno con rifacimenti risalenti al 1530, dal canto suo non poteva che esprimere la propria amarezza per gli scempi artistici cui era costretto, suo malgrado, ad assistere, scrivendo al Ministro per la Pubblica Istruzione il 28 dicembre 1913: “Alla soddisfazione di aver potuto salvare qualche pregevole fabbrica
come il bel tempietto cinquecentesco di S.Tommaso, fa doloroso riscontro l’amara delusione della perdita di tanti belli avanzi che le nostre cure non giovarono a proteggere dalla manìa demolitrice sorretta da brutti tornaconti commerciali: alludo principalmente ai belli archi di Via Pianellari e all’interno medioevale di una casa che un giorno trovammo distrutti all’insaputa di tutti. E qui alle gesta dei demolitori dovrei far seguire quelle dei ladri volgari e dei macchinatori di furti artistici. Ma di questa piaga che imperversò a Messina e che vi domina ancora in modo inconcepibilmente spudorato, tratterò in altro posto
”.

Ma sicuramente il caso più eclatante di cieco furore demolitorio, fu quello della superba Palazzata ottocentesca, fatta saltare in aria con l’esplosivo nel 1913, dopo un lungo ed acceso dibattito sull’opportunità della sua conservazione (circa metà della splendida cortina architettonica, dall’edificio della Dogana al Palazzo Municipale, era rimasta in piedi e perfettamente recuperabile). E’ ancora Gaetano La Corte Cailler, nel suo diario, a riportare la notizia delle prime, concitate riunioni: “4 Settembre (Lunedì) [1911]. Si deliberò
un lungo ordine del giorno per la conservazione e riparazione dell’antico Palazzo Senatorio, ma Borzì insistette a più non posso in contrario, mentre Papa fu felicissimo e convincente nella difesa”.

“27 Settembre (Mercoledì) [1911]. Oggi perviene al Municipio il lungo verbale della seduta 4 corr. della Commissione di Antichità e Belle arti, riguardante il Palazzo Senatorio che si desidera conservato. Patriottica e ben fatta la difesa dell’Ing. Papa: quanto ha esposto Borzì, chiedendo la demolizione, depone assai male di lui.
Onore e vanto di Messina, che nel terremoto del 5 febbraio 1783 aveva perso la prima del 1622, uno dei desideri più forti degli scampati al terremoto del 1908, nel porre mano alla ricostruzione della città, fu certamente quello di vedere nuovamente risorgere, dalle macerie, la magnifica “Palazzata”, architettura- simbolo che nei secoli, a partire dalla prima metà del Seicento, aveva caratterizzato Messina e conferito un superbo affaccio monumentale sul mare costituendone, senz’altro, il fatto urbano più significativo.
La seconda Palazzata era stata progettata da Giacomo Minutoli (1765-1827) ed iniziata ad edificare il 13 agosto 1803. L’architetto abate messinese riuscì ad evocare la precedente “Palazzata” di Antonio Ponzello con la collaborazione di Simone Gullì interpretandone, con un linguaggio già arricchito di linfe vanvitelliane, la più intima ed efficace sostanza. Egli, infatti, aveva portato nella sua città natale il linguaggio compositivo neo-cinquecentista sulla scia delle correnti architettoniche contemporanee romane che furono, appunto, quelle del neo-cinquecentismo di Carlo Marchionni e del nuovo classicismo di Carlo Vanvitelli. Per il progetto
della “Palazzata” Minutoli aveva risolto il problema della diversa funzione, rappresentativa per le abitazioni principesche, utilitaria per le botteghe: un lunghissimo portico nel quale si aprivano le botteghe; un piano nobile con balconi fiancheggiati da colonne; un piano sovrapposto con colonnato ionico, mezzanino e balaustrata sommitale. Fonti di ispirazione furono la Reggia di Caserta del Vanvitelli, il Palazzo Ducale milanese del Piermarini e le architetture palermitane del Marvuglia.

La monumentale cortina architettonica aveva il suo fulcro nel Palazzo di Città, opera dello stesso Minutoli, rimasto intatto nei due fronti a mare e a monte se si esclude la copertura, distrutta da un incendio sprigionatosi subito dopo il sisma.
Nell’agosto del 1912 il numero 3 de “La Rassegna Tecnica”, rivista che si stampava a Messina, ospitava un accorato articolo di Gaetano La Corte Cailler dal titolo Per la conservazione dell’antico palazzo Senatorio di Messina dove, tra l’altro, scriveva: “Io […] ritengo sempre che il Palazzo Senatorio potrebbe rimanere – convenientemente restaurato – in centro ad una nuova ed antisismica Palazzata che decorando il porto, lo riparerebbe dai venti come l’antica. Invoco quindi che sia bandita la fretta: di demolizioni accelerate dei monumenti messinesi ne abbiamo già troppo, ed a me piange l’animo sempre quando ricordo il prospetto di S. Giovanni di Malta; la Porta di Messina; la Cappelletta di Via S. Cristofaro; l’Atrio Monumentale Cammareri,
in via Rovere; le Arcate e la Cappelletta di via Pianellari, e poi tanti altri avanzi mediovali, portoni, mensole, lapidi storiche tutto buttato giù! Una caccia vandalica ai monumenti è stata esercitata spietatamente fino adesso […] ma il R. Commissario del Municipio, solo arbitro della quistione, sospenda per ora almeno la demolizione del palazzo Senatorio […] Quel rudere là, malvisto generalmente, manterrà sempre il raffronto tra il Governo d’Italia e quello delle Due Sicilie, e proverà che Messina ha diritto ad una sede comunale dignitosa, tale qual l’ebbe sotto il regime passato, e che venne dichiarato oscurantista!
”.


Nonostante tale appello e nonostante che il problema della ricostruzione della “Palazzata” fosse stato sollevato dal Collegio degli Ingegneri ed Architetti di Messina che, nella “tornata” del 16 luglio 1910, aveva preso il deliberato da cui discese il “voto” del 10 settembre 1910, che il Collegio degli Ingegneri ed Architetti inviò al Ministro dei Lavori Pubblici, il quale espresse il suo apprezzamento e interessamento per la salvaguardia della prestigiosa architettura; nonostante, ancora, due ordini del giorno dell’8 luglio 1912 del Collegio degli Ingegneri ed Architetti (“Propone altresì un voto al R. Commissario perché faccia studiare il progetto di restauro al fine di trovare nel suo esame la convenienza o meno di conservare l’edificio
(Cutrufelli), “Il Collegio delibera far voti al Governo perché dichiari monumento nazionale il Palazzo Comunale” (Vinci)), la sorte del Palazzo Municipale era segnata: cadde inesorabilmente sotto la dinamite, come si è detto, insieme alla parte di Palazzata che era rimasta in piedi.


L’emergenza abitativa, all’indomani del sisma, fu in piccola parte risolta utilizzando vagoni ferroviari e
baraccamenti di fortuna, iniziati a realizzare a partire dal 5 gennaio 1909 in piazza Cavallotti.
Contemporaneamente, in piazza Cairoli, nacque il primo villaggio in un certo senso autonomo, “Michelopoli”,
grazie all’interessamento dell’on. parmense Giuseppe Micheli, deputato alla Camera. Utilizzando materiale
recuperato tra le macerie e con l’ausilio dei soldati per la mano d’opera, l’on. Micheli riuscì a realizzare, oltre
a decorose abitazioni per le famiglie degli scampati, un’infermeria, un refettorio, una chiesa e un ufficio di
anagrafe che funzionò fino al 17 gennaio 1909, quando il Municipio ricostituii il servizio dello Stato Civile.
Raccolto, inoltre, materiale tipografico abbandonato, fece stampare un giornale di cui egli stesso era
direttore, dal titolo “Ordini e notizie”. Fino al 16 febbraio 1909, giorno in cui venne pubblicato il proclama
del generale Mazza che dichiarava cessato lo stato d’assedio, il giornale rappresentò il primo ed unico mezzo
d’informazione della città, indicatore del forte desiderio di rinascita.

Il vero e proprio piano urbanistico degli insediamenti baraccati su progetto dell’ing. Riccardo Simonetti,
destinato dal Ministero dei Lavori Pubblici alla Direzione dell’Ufficio Speciale del Genio Civile, ebbe le grandi
concentrazioni a valle e a monte del viale San Martino, fino a Gazzi, e nei fondivalle delle fiumare, Camaro e
Giostra. La massiccia gara di solidarietà fra Nazioni, fece poi sì che sorgessero interi quartieri con peculiari
caratteristiche tipologiche ed architettoniche, come il Villaggio americano (1500 baracche), il Villaggio Regina
Elena (120 baracche), il Villaggio Svizzero (21 casette tipiche)

Giunto a Messina il 10 gennaio, l’ing. Simonetti presentava il suo piano regolatore dei baraccamenti il 25 dello stesso mese che, approvato da una commissione appositamente nominata dal generale Mazza e composta dal generale medico Ferrari, dal rappresentante della Sanità Pubblica dott. Basile, dal Prefetto, dal Regio Commissario De Berardinis, dall’Ingegnere Capo del Comune Borzì e dai deputati prof. Ludovico Fulci e dott. Giuseppe Faranda, trovava immediatamente attuazione.
Il 31 gennaio giunse, infatti, il vapore “Comino” da Venezia con il primo carico di legname. L’occupazione delle aree venne fatta in base alla legge del 12 gennaio 1909 che, oltre ad assegnare subito la somma di 30 milioni di lire per provvedere ai bisogni ed opere urgenti, autorizzava l’occupazione temporanea dei terreni per la costruzione di baracche, sia di uso privato che pubblico.
La tipologia delle baracche costruite dal Genio Civile (ma è più corretto parlare di case in legno perché, di queste, avevano tutte le caratteristiche) era quella di due vani di 4 x 4 metri ciascuno, con basamento su pilastrini di muratura, ossatura robusta ad incastro e pareti composte da tavole d’abete di 25 millimetri di spessore e collocate verticalmente a contatto con listellatura a coprigiunto.
L’altezza era di metri 2,75 al piano di gronda e metri 3,95 al colmo del tetto. Ogni baracca veniva dotata di cucinetta con pavimento di selciato di malta, pareti di muratura di mattoni, banco di muratura e fornelli di ghisa.
Complessivamente, a Messina, sorsero un centinaio di padiglioni speciali per edifici pubblici e 14.459 vani di baracche su un tessuto urbano caratterizzato da 46 chilometri di nuove strade larghe 8, 12, 16, 18 e 20 metri, inghiaiate e cilindrate con regolare sistemazione delle acque piovane. In totale, 7.636 baracche.

Una storia a se assunse il Quartiere Lombardo, edificato nel 1910-14 su un’area di circa 36.000 metri quadri dall’Opera Pia Lombarda, Ente morale costituitosi in sostituzione del Comitato lombardo e piemontese. Su quest’area, gli ingegneri Cesare Nava e Carlo Broggi, progettarono un orfanotrofio (inaugurato il 28 dicembre 1910 e demolito nel 1931), un asilo e 23 case economiche divise in 104 appartamenti. Queste ultime, pregevoli esempi di architettura tardo-liberty, sono state quasi tutte demolite per far posto ad aberranti casermoni in cemento armato di edilizia palazzinara

Messina assumeva, così, la fisionomia di una città di frontiera da corsa all’oro dell’epopea western, con edifici pubblici di gradevolissima architettura e di pretenziosità decorativa liberty: le Regie Poste, il Municipio, la Cattedrale dono dell’Imperatore Guglielmo di Germania, la Regia Università, la Regia scuola Juvara, la Corte d’Assise, la Caserma dei Pompieri, la Questura Centrale, il Tribunale, il Grand Hotel e ristorante Pagliari, il Grand Hotel “Nuova Messina”, l’Hotel De Pasquale, l’Hotel Belvedere, il Caffè Tripoli, il Padiglione per l’Esposizione edilizia, il Teatro Carlo Citarella, e, il Grand Hotel “Regina Elena”, spettacolare complesso architettonico di grande eleganza formale e ricercatezza decorativa che sorse nel quartiere americano.

Oggi, di queste belle e funzionali costruzioni in legno non rimane più traccia. Le baracche del dopo sisma di cui ad ogni piè sospinto (specialmente nel 2008, in occasione del centenario del terremoto) si scrive con enfasi retorica ma, soprattutto, con non dissimulata acrimonia nei confronti di Messina da parte di autorevoli (sic) testate nazionali, non esistono più già dagli anni Sessanta (l’ultima costruzione in legno doc rimasta, anche se rimaneggiata, sorge lungo la strada per Tremonti, in quello che ancora oggi viene denominato Villaggio Svizzero.

La sua esistenza, a cento anni dalla costruzione, la dice lunga sulla buona tecnica e
sull’eccellenza dei materiali allora impiegati). Le baracche di cui riferiscono i mass-media che sono ancora esistenti a Messina a cento anni dal terremoto, con compiaciuti toni scandalistici e volutamente antimeridionalisti, non sono altro che bidonville, ne più e ne meno che bidonville come le tante che punteggiano la superficie di tutto il nostro Bel Paese.

Con deliberazione del 27 maggio 1909, la Giunta Comunale conferì all’ing. Luigi Borzì, capo dei Servizi Tecnici del Comune, l’incarico di redigere il nuovo Piano regolatore della città. Lo strumento urbanistico, dopo appena sei mesi, venne consegnato dal progettista il 9 dicembre 1909 ed approvato con i Regi Decreti del 26 giugno 1910 e del 31 dicembre 1911. Il Piano, che sostanzialmente prevedeva la ricostruzione della città nello stesso sito dell’antica, con alcune variazioni del tessuto viario, ebbe per fondamento i seguenti criteri:

Realizzare la sistemazione del porto e le conseguenti opere necessarie ad un razionale sviluppo
commerciale. La ricostruzione della città sullo stesso sito di quella pre-terremoto, comportò inevitabilmente sostanziali modifiche al sistema stradale. Una volta abbattuta totalmente la Palazzata ottocentesca, la lunga via Garibaldi prolungata verso sud fino a piazza Cairoli, raddoppiò la sua larghezza verso mare, mantenendo l’antico ciglio a monte. Il corso Cavour venne rettificato ed allargato a 20 metri, fra la villa Mazzini e la via Tommaso Cannizzaro così come l’antica via Cardines, ribattezzata Cesare Battisti. L’antichissima via Monasteri, prima del 1908 tortuosa e stretta strada, venne allargata a metri 13,50 e ribattezzata “Ventiquattro Maggio”.
L’ampliamento, invece, trovò attuazione in differenti zone. Quella con asse portante nel viale San Martino, che poi era la prosecuzione dell’ampliamento già previsto nel Regio Decreto del 1869, di Gazzzi e Camaro a sud e Villa Lina e Annunziata a nord.
Certamente, la più felice realizzazione dell’ing. Borzì rimase la strada di Circonvallazione che, nel suo percorso dal torrente Annunziata allo Zaera, nel tratto centrale seguiva in parte il circuito della cinta muraria fortificata del 1537. Si legge, in proposito, nel libro “Messina città rediviva” di Pietro Longo, stampato nel 1933: “Per il suo tracciato l’ing. Borzì ha potuto sfruttare le insenature delle colline circostanti, ricavando una varietà di aspetti panoramici di incomparabile bellezza”. E, con parole che suonano profetiche per quanto è avvenuto fino ad oggi: “Questa strada […] ha creato una notevole superficie di aree fabbricabili pregiate che
con l’andare del tempo saranno certamente utilizzate.” Le aree, infatti, sono state massicciamente edificate creando un orrendo muro di cemento che si sviluppa senza soluzione di continuità, infischiandosi, purtroppo, dell’obbligo che allora era stato imposto dell’arretramento dei fabbricati di 6 metri dal ciglio della strada a monte, in maniera da lasciare spazio ad aree a verde e di 10 metri a valle, da sistemare a giardinaggio, per rendere libera la visuale panoramica verso il mare.

Oltre alla stesura del Piano regolatore, Borzì si occupò della progettazione del sistema delle scalinate che collegano la città bassa con quella alta e, sulla scia del revival neoclassico e in ossequio al fascino per la monumentalità, ideò un’ imponente fontana con cascata d’acqua, mai realizzata, quale sfondo scenografico della lunga e rettilinea via Garibaldi, nel sito dove oggi sorge la villetta di piazza Castronovo. Altro suo faraonico ed interessante progetto non realizzato, redatto in collaborazione con l’arch. Santi Buscema dell’Ufficio Tecnico e con l’arch. Rutilio Ceccolini, fu quello della nuova Cortina del porto con porticato colonnato, porte monumentali e terrazzo di copertura pedonale, in maniera da consentire ai messinesi di
passeggiare ammirando dall’alto di metri 10 il suggestivo panorama del porto e dello Stretto. Morto l’ing. Borzì, di questo progetto che peraltro aveva ottenuto il plauso generale, non se ne parlò più.

Il nuovo impianto di fognatura, allora considerato “[…] fra i più razionali, quali poche fra le città più progredite possono vantare […]”, venne progettato dall’ing. Giuseppe Carollo. Il sistema adottato fu quello misto, con sfioratori di massima piena e collettori praticabili a sezione ovoidale, a piede asciutto su apposite banchine (tali cunicoli, percorribili ad altezza d’uomo, sono ancora esistenti, in particolare il collettore principale Santa Cecilia sotto l’omonima strada).

Il problema della ricostruzione di Messina rientrò nel quadro dei grandi interessi nazionali dopo l’avvento del Fascismo, attraverso la sensazione diretta che della sua importanza ebbe Mussolini nella visita del 22 giugno 1923. La svolta decisiva venne infatti data dal Capo del Governo, che fece destinare alla ricostruzione degli edifici privati la somma di 500 milioni di lire da erogarsi in sette anni. Al tempo stesso veniva messa in liquidazione l’Unione Edilizia Messinese che aveva fallito il suo scopo. Per quanto riguarda chiese ed istituzioni religiose e di beneficenza, il governo fascista stipulò una convenzione 1l 30 marzo 1928, stanziando
175.000.000 a totale carico dello Stato. Fra il 1925 ed il 1930, la ricostruzione edilizia di Messina ebbe il suo massimo impulso ed al 31 dicembre 1933 la popolazione disponeva di 11.600 appartamenti di proprietà privata e 7.975 alloggi di Stato.
Le rigide norme antisismiche che limitavano l’altezza degli edifici e l’armonica integrazione del verde col costruito, all’epoca valsero a Messina l’appellativo di “città-giardino”, caratterizzata da larghe strade e fabbricati che non superavano i tre piani. L’architettura degli edifici, sia pubblici che privati, era quella dell’Eclettismo, qui come in nessun’altra città italiana usatissima. Un ritorno stilistico, in sostanza, dettato in massima parte più da motivi sentimentali di affetto per la perduta città precedente al 1908 che di gusto, tradotto nella rievocazione di palazzetti rinascimentali o nell’imitazione dei capolavori architettonici locali del passato. A partire dal 1910 e fino agli inizi degli anni ’30, la città si mantenne immune dai dettami del movimento razionalista e funzionalista che, nello stesso periodo, si diffondeva con capillarità in tutto il
mondo. Gli edifici che rappresentavano la città di allora e che ne rappresentano, ancora oggi, il suo centro storico e l’architettura di maggior pregio, furono tra gli altri la Dogana (arch. Giuseppe Lo Cascio, 1912-14); Palazzo del Governo (arch. Cesare Bazzani, 1913-15); Intendenza di Finanza (arch. Mariano Cannizzaro, 1913-20); Palazzo Tremi o “del Gallo” in via Santa Cecilia (arch. Gino Coppedè, 1913-14); Palazzo della Provincia (arch. Alessandro Giunta, 1914-18); Palazzo delle Poste (arch. Vittorio Mariani, 1913-15); Palazzo municipale (arch. Giuseppe Botto, 1920-27); Banca d’Italia (arch. Cobolli Gigli, 1924); Istituto Tecnico “Jaci” (ing. Saro Cutrufelli, 1922); Banca Commerciale Italiana (ing. Pietro Interdonato, 1924); Palazzo Arcivescovile (arch.
Enrico Fleres, 1924); Liceo Classico Maurolico (ing. Pietro Interdonato, 1924-32); Chiesa di San Giuliano (arch. Umberto Angelini, 1925-28); Santuario di Montalto (arch. Francesco Valenti, ing. Francesco Barbaro, 1925-29); Scuola Media “Tommaso Aloysio Juvara”, oggi Facoltà di Magistero (ing. Letterio Savoja, 1925); Scuole Elementari “Tommaso Cannizzaro” (ing. Antonino Galbo, 1925); Chiesa S. Antonio di Padova (ing. Letterio Savoja, 1926); Cassa di Risparmio ”Vittorio Emanuele” (arch. Ernesto Basile, 1926-29); Palazzo dell’Ina e Galleria Inps in via Consolato del Mare (arch. Peressutti, 1926); Scuola Elementare “Francesco Crispi” (ing.
Vincenzo Vinci, 1927); Chiesa di San Lorenzo o del Carmine (arch. Cesare Bazzani, 1928-31); Chiesa di San Camillo (ing. Antonino Marino, 1928-32); Chiesa di San Giacomo (arch. Umberto Angelini, 1928); Teatro Savoja, non più esistente (ing. Vincenzo Salvadore, 1928); Chiesa del SS. Salvatore ed Istituto Salesiani (Ing. Enzo D’Amore, 1928-32); Teatro “Impero” poi “Peloro”, non più esistente (arch. Achille Manfredini, 1928); Scuola elementare “Cesare Battisti” (ing. Amedeo Crisafulli, 1928); Chiesa di S. Antonio Abate (ing. Francesco Barbaro, arch. G. Griffini, 1928-30); Istituto Nautico “Caio Duilio” (ing. Saro Cutrufelli, 1928); Istituto Marino “Benito Mussolini” (ing. Guido Viola, 1928); Galleria Vittorio Emanuele III (arch. Camillo Puglisi-Allegra, 1929);
Palazzo del Consiglio Provinciale delle Corporazioni, poi Camera di Commercio (arch. Camillo Puglisi-Allegra, 1929); Chiesa di San Francesco dei Mercanti (ing. Giuseppe Mallandrino, 1930); Chiesa di Santa Maria dell’Arco in San Francesco di Paola (arch. Umberto Angelini, 1930); Chiesa di Gesù Sacramentato o S. Orsola (ing. Francesco Barbaro, 1928); Istituto “Conservatori Riuniti” e cappella annessa (arch. Alessandro Giunta, 1931); Chiesa di San Luca Evangelista (arch. Umberto Angelini, 1932); Chiesa Santa Maria di Portosalvo (ing. Giuseppe Mallandrino, 1931); Chiesa di San Leonardo in San Matteo (arch. Saladino del Bono, 1932); Chiesa
di San Domenico (arch. Umberto Angelini, 1932); Chiesa di Santa Caterina Valverde (arch. Cesare Bazzani, 1932); Istituto “Cappellini”, oggi Liceo “Archimede” (arch. Alessandro Giunta, 1932); Real Convitto “Dante Alighieri” (ing. Vincenzo Salvadori, 1933); Chiesa di Santa Maria La Nuova (arch. Guido Viola, 1933); Sacrario di “Cristo Re” (ing. Francesco Barbaro, 1937); Ospedale “Regina Margherita” (ing. Antonio Bianco, 1933); Palazzo del Banco di Sicilia (arch. Camillo Autore, 1936); Ex Palazzo Littorio oggi catasto (arch. Guido Viola e Giuseppe Samonà, 1939); Palazzo Inail Cortina del porto (1939); Stazione ferroviaria e marittima (arch.
Angiolo Mazzoni, 1937-39).

Nel 1936, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, la superficie del centro urbano inclusi i quartieri di Gazzi e di Giostra alta all’interno della strada di circonvallazione, misurava mq. 4.023.373. Di questi, mq. 1.642.568 erano costituiti da strade, piazze e giardini. La rete stradale aveva uno sviluppo di 93 chilometri e gli isolati già completati erano 540 (il vecchio abitato ne contava 800) di cui, 59, occupati da uffici pubblici.
La ricostruzione di Messina, poteva dirsi completata.
“I messinesi ricordino che questo suolo sul quale ora vivono è per essi sacro. L’area delle strade e delle piazze, quella su cui sorgono le case, è quella stessa irrorata dal sangue dei 50.000 morti del 28 dicembre 1908, in una ecatombe che nessuna accolta umana patì mai nei secoli. Sorge da questo grande olocausto, per chi ancor vive dei superstiti, per chi è sopraggiunto, per chi domani vivrà, messinese di sangue o di spirito, l’obbligo di venerare questo Tempio. 2 Agosto 1933 – XI, Pietro Longo”.

tratto da professione-ingegnere.it

Arch. Nino Principato