
Lunedì il Consiglio straordinario affronta l’emergenza: mentre l’amministrazione moltiplica gli spot sulla «Messina Social City», mancano i dati elementari su disabili e autistici. L’assistenza domiciliare dimezzata e i ritardi burocratici svelano il paradosso di un sistema che assume e spende, ma naviga a vista senza conoscere la mappa reale dei bisogni


di GIUSEPPE BEVACQUA
C’è un momento, nella vita amministrativa di una città, in cui la narrazione ufficiale deve necessariamente cedere il passo all’aritmetica della realtà. Quel momento per Messina è fissato per lunedì 15 dicembre, alle ore 14, quando il Consiglio Comunale si riunirà in seduta straordinaria. Sul tavolo non ci sono semplici pratiche burocratiche, ma la carne viva del tessuto sociale: il disagio minorile, la dispersione scolastica, la ludopatia, le dipendenze. Temi che definiscono il grado di civiltà di una comunità e che richiedono, prima ancora che risorse, una “intelligenza degli avvenimenti“, per usare una categoria cara all’analisi sociale moderna.
Tuttavia, l’appuntamento d’aula rischia di trasformarsi nella rappresentazione plastica di un paradosso tutto messinese. Da una parte l’atto dovuto del confronto istituzionale, dall’altra una macchina amministrativa che sembra girare a vuoto, intrappolata in un’autoreferenzialità che preoccupa. La questione sollevata dall’opposizione e dalle inchieste recenti non è politica nel senso basso del termine, ma strutturale: come si può pianificare il futuro dei servizi sociali se manca la conoscenza del presente?
Il silenzio calato nell’ultima commissione di fronte a domande elementari — quanti sono i disabili in città? Quanti i cittadini affetti da sindrome dello spettro autistico? — è un vuoto pneumatico che nessuna campagna di comunicazione può riempire. Governare il sociale senza possedere i dati è come navigare nell’oceano senza bussola: si può anche andare veloci, ma non si sa dove si arriverà. E qui emerge il primo cortocircuito tra la “Messina Social City” e la città reale. L’azienda speciale, nata per superare la frammentazione delle cooperative, rischia di essere diventata un monolite opaco.
Se la politica sociale si riduce a gestione del potere e degli eventi, si smarrisce la missione etica del servizio pubblico. Le storie che emergono dal sottobosco del disagio cittadino — come quella della signora “Mary”, ipovedente costretta a rinunciare all’assistenza per un’organizzazione che non risponde ai bisogni ma a logiche contabili oscure (In questi giorni ha ricevuto una raccomandata con la richiesta di pagamento delle compartecipazione. Nessuna spiegazione solo due bollettini di pagamento uno di 434,69 E. per il mesi di Gennaio e Febbraio 2025 e uno di Marzo e Aprile 2025 di 212,63 E.), o dell’anziana lasciata per ore in attesa di un trasporto verso il Policlinico— sono sintomi di una patologia del sistema. Quando l’utente diventa un numero in un algoritmo burocratico, o peggio, un fastidio da gestire, il patto di fiducia tra istituzione e cittadino si rompe.
Non è un mestiere per cinici, quello dell’assistenza. E non può esserlo nemmeno quello dell’amministrazione. La richiesta di trasparenza sulla filiera dei finanziamenti — fondi europei, statali, il PAC anziani e infanzia — non è un capriccio inquisitorio, ma un diritto della cittadinanza. Sapere come viene speso ogni euro del “Fondo Povertà” o perché i servizi di assistenza domiciliare (SAD) siano crollati nei numeri a fronte di una spesa costante o crescente (Dalle relazioni annuali si evince che il Servizio SAD e SAD H si è ridotto da 1.186 a 430 come da relazione anno 2024-2025 mese di marzo 2025 a pagina 194), è la base di quella “ragione morale” che deve guidare la cosa pubblica.
Il rischio, concreto, è che a Messina si sia scambiata la propaganda per governo. Un moderno “Minculpop” in salsa peloritana che produce video emozionali e conferenze stampa, mentre la realtà, fatta di liste d’attesa e compartecipazioni richieste a scoppio ritardato, racconta un’altra storia. Il passaggio dal modello delle cooperative a quello della partecipata unica doveva garantire efficienza e dignità del lavoro; se il risultato è un allungamento della filiera di comando e una contrazione della qualità percepita, allora è urgente fermarsi e riflettere.
La strada per uscire da questa nebbia esiste ed è tracciata dalle regole stesse della buona amministrazione: restituire centralità e dignità al Dipartimento Politiche Sociali, separando nettamente chi controlla da chi gestisce. Il Comune deve tornare a essere il cervello che programma e verifica, la Partecitata il braccio che esegue, non un “ente privato” che risponde solo a logiche aziendali.
Lunedì il Consiglio ha l’opportunità di squarciare il velo. Non serve un processo, serve un’operazione verità. Perché i servizi sociali non sono un palcoscenico per le ambizioni di chi governa, ma l’ultima trincea di protezione per chi non ha voce. E una città che non sa contare i suoi fragili, difficilmente saprà prendersene cura.











ALTRI “GIORNALI” ONLINE FANNO FINTA DI ESSERE DEMOCRATICI, MA TAGLIANO I COMMENTI NEGATIVI NEI CONFRONTI DEI RAS LOCALI E DEL LORO MANDANTE. LEI, DOTT. BEVACQUA, PERCHè NON APRE A UN CONFRONTO LIBERO, SEMPRE NEI LIMITI DELLA LEGALITà OVVIAMENTE
Ottima idea