Ritratto di una città arresa, dove il silenzio dei migliori è coperto dal rumore dei mediocri.

Editoriale domenicale di Giuseppe Bevacqua
C’è una parola, ostica e magnifica, che dovremmo recuperare dal dimenticatoio della storia per descrivere il nostro presente. Una parola inventata da Benedetto Croce durante il ventennio fascista, quando il pensiero libero era un crimine e la cultura un nemico da abbattere: Onagrocrazia.
Dal greco onagròs, asino selvatico.
Peccato che l’originale, la bestia fiera e indomita, sia quasi estinto. La sua versione umana, al contrario, prolifera in modo infestante.
Croce, con la sua sterminata cultura pur senza una singola laurea, la coniò per definire il “potere in mano agli asini”. Non si riferiva a un generico governo di incompetenti, ma a qualcosa di più specifico e letale: un ceto dirigente privo di istruzione e di carattere, prono al volere di un uomo solo al comando, la cui unica cifra distintiva era l’ignoranza abissale e la rozzezza dei modi. Asini, appunto, ammaestrati a eseguire gli ordini del padrone in uno stato che, a differenza del loro habitat naturale, non è affatto brado.
Quella parola oggi non è un reperto archeologico, ma una diagnosi di spietata attualità.
Ci si guardi attorno. Croce, dopo la dittatura, fu chiamato a ricostruire il Paese insieme a giganti del calibro di De Gasperi, Togliatti, Nenni. Intelletti diversi, persino avversari, ma accomunati da statura morale e spessore culturale. E oggi? Oggi i nostri governanti, nani arroganti sulle spalle di nessun gigante, non hanno che la loro crassa ignoranza, a cui sommano la protervia del potere e l’inesperienza presuntuosa dei neofiti. Una miscela esplosiva che sta mandando in frantumi la cosa pubblica.
E il quadro, se possibile, si fa ancora più desolante volgendo lo sguardo a chi dovrebbe opporsi a tale scempio. Poiché l’onagrocrazia non è solo un problema di chi governa, ma dell’intero pantano politico.
Assistiamo così allo spettacolo indecoroso di un’opposizione inesistente, che riesce nell’incredibile impresa di litigare soprattutto con sé stessa, avvitata in personalismi sterili. Un pulviscolo di ambizioni nane, che si potrebbe rivelarsi quasi certamente incapace di produrre un’alternativa politica valida e condivisa alle prossime amministrative. È il ritratto di una classe politica intera, boriosa e autoreferenziale, che dalla Regione Siciliana fino all’ultimo consiglio di quartiere ragiona solo ed esclusivamente pro domo sua. La recente cronaca giudiziaria lo sta narrando giorno per giorno.
La politica ha perso letteralmente il contatto con la strada, con l’odore dei mercati, con le facce della gente in fila alla posta. Non conosce più le difficoltà del territorio perché chi la rappresenta vive in un mondo a parte, fatto di nomine, prebende e tweet velenosi.
Ma l’onagrocrazia non potrebbe prosperare senza il terreno fertile su cui poggia: l’ignavia di parte dei cittadini messinesi. Un’apatia desolata che si manifesta in una duplice, mortale malattia dell’anima. Da un lato, c’è un’atavica incapacità di ribellarsi, un’allergia cronica all’aggregazione che trasforma ogni potenziale protesta in un lamento solitario e sterile. Dall’altro, ed è questo il sintomo più spaventoso, c’è chi in questo imbarbarimento ci sguazza. Una parte non trascurabile della cittadinanza sembra godere della violenza verbale e del basso tenore culturale, come se i pozzi avvelenati della cultura, della morale e della politica offrissero finalmente un’acqua torbida in cui riconoscere la propria immagine.
È da questo brodo primordiale, da questo fallimento collettivo, che nasce il vero trionfo del nulla. E così, ad ogni raglio di chi è al comando, ad ogni editto social, si scatena un diluvio di nefandezze senza freno. Legioni di imbecilli si riversano online per difendere l’indifendibile, per applaudire il nulla, per insultare chiunque osi esercitare il pensiero critico. Si apre una vera e propria cloaca a cielo aperto, in cui il materiale organico dell’idiozia schizza da tutte le parti, imbrattando ogni cosa.
È questo lo spettacolo a cui assistiamo: il trionfo della mediocrità urlata, la glorificazione del vuoto pneumatico, il potere gestito con la grazia di un asino in una cristalleria. E mentre l’onagrocrazia celebra se stessa, la città affonda. Ma a loro non importa. L’importante è il prossimo post, il prossimo like, il prossimo raglio da lanciare nell’etere per la gioia dei propri simili.
Chiamare le cose con il loro nome non è un vezzo intellettuale, è un dovere civile. E questa, signori, è Onagrocrazia. Il governo degli asini, senza ali e che, di certo, non sono capaci di volare da nessuna parte.
Con tutto il rispetto, s’intende, per le bestie a quattro zampe.

