
L’Università di Messina, prestando il proprio nome a questa operazione, dovrebbe porsi il problema con ancora più urgenza, essendo il luogo dove si formano quelle intelligenze che poi vediamo fuggire.

Messina si mette in posa, ancora una volta. Si accendono le luci del Sud Innovation Summit, la fanfara mediatica suona martellante sui social e il sipario si apre sulle dichiarazioni di rito. «Messina deve essere protagonista», gongola il sindaco di Messina Federico Basile, evocando «nuovi orizzonti» e le «radici di una nuova economia dell’innovazione» da far germogliare qui. Parole nobili, una narrazione patinata che, per il terzo anno consecutivo e al costo di circa 170 mila euro di soldi pubblici a edizione, prova a vendere un futuro che non esiste. Nel frattempo c’è anche chi fa campagna elettorale (continua) snocciolando 42 minuti (42!) di lettura “a braccio” sull’AI.
Mentre l’amministrazione allestisce il palcoscenico, la realtà, però, quella cruda e non addomesticabile, presenta il conto. E lo fa con la brutalità dei numeri contenuti nell’ultimo rendiconto sociale dell’INPS, quello fatto di dati veri, concreti ed ingiustificabili. Una sentenza inappellabile che i messinesi dovrebbero leggere approfonditamente. Quale protagonismo si può costruire in un territorio dove l’84% dei nuovi contratti di lavoro è a termine? Di quali radici innovative parliamo, quando oltre il 30% dei nostri giovani tra i 15 e i 34 anni non studia e non lavora, inghiottito dal limbo dei NEET?
La distanza tra la Messina raccontata sul palco del Summit e la Messina vissuta ogni giorno è una voragine. Da un lato, la retorica delle startup e degli orizzonti tecnologici; dall’altro, uno schiaffo quotidiano fatto di precarietà strutturale. Solo il 16% delle nuove assunzioni è a tempo indeterminato. Il part-time, spesso involontario, è la norma per il 41,4% dei dipendenti, soprattutto donne e giovani. Si è poveri anche lavorando, con salari inadeguati erosi dall’inflazione, in un’economia asfittica basata su commercio e costruzioni, settori a basso valore aggiunto e alta vulnerabilità.

Questa emorragia di dignità ha un volto preciso: quello delle donne, che guadagnano in media 22 euro in meno al giorno rispetto agli uomini; quello dei giovani, la cui unica prospettiva concreta sembra essere il biglietto di sola andata acquistato alla stazione. Quella stazione che, a differenza del Summit, non ha bisogno di battage pubblicitari, perché è il vero, unico “hub” che funziona a pieno regime in questa città, smistando il nostro futuro altrove.
Quindi, la domanda è d’obbligo: a cosa servono questi eventi-spot, se non a creare un’illusione ottica di tre giorni? Quali ricadute reali, misurabili in posti di lavoro stabili e ben retribuiti, hanno prodotto le edizioni passate? L’Università di Messina, prestando il proprio nome a questa operazione, dovrebbe porsi il problema con ancora più urgenza, essendo il luogo dove si formano quelle intelligenze che poi vediamo fuggire.
È ora di smetterla con la politica degli annunci e degli allestimenti scenici. Il territorio ha bisogno di interventi strutturali, di una strategia che parta dalla “economia fondamentale” – sanità, istruzione, assistenza, servizi – per creare occupazione di qualità. Ha bisogno di filiere produttive che valorizzino le risorse locali, non di fiere delle vanità che costano caro e non lasciano nulla.
Perché di chiacchiere, lustrini e schiuma sono piene le banchine dei treni e le sale d’imbarco che ogni giorno svuotano Messina della sua linfa vitale. E nessuna narrazione, per quanto amplificata, potrà mai coprire il rumore assordante dei treni che partono e delle valigie che si chiudono per sempre.
P.S. Saremmo noi per primi a riconoscere validità al Summit del Sud se, dati alla mano, dimostrasse quanti giovani sono stati assunti da aziende speaker, quanti hanno trovato lavoro nella propria città in aziende che il Summit ha determinato nascessero, quanti curriculum hanno consegnati durante il Summit si sono trasformati in occupazione vera ed a tempo indeterminato.
Restiamo in attesa.


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