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Boris Giuliano, lo Sceriffo cresciuto a Messina: 46 anni fa la mafia uccideva l’uomo che capì tutto prima degli altri

- 21/07/2025
giorgio_boris giuliano

Il 21 luglio 1979, a Palermo, Cosa Nostra assassinava il capo della Squadra Mobile. Un investigatore geniale le cui scoperte aprirono la strada a Falcone, ma anche un padre affettuoso e un uomo di rara umanità, cresciuto a Messina. Una storia di coraggio, amore e sacrificio.

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MESSINA – Ci sono date che sono cicatrici nella memoria del Paese. Il 21 luglio è una di queste. Quarantasei anni fa, in una calda mattina d’estate del 1979, la mafia premeva il grilletto per zittire una delle menti investigative più brillanti e pericolose che avesse mai incontrato. A terra, all’interno del Lux Bar di Palermo, dopo sette colpi di pistola sparati alle spalle, restava il corpo di Giorgio Boris Giuliano. Ma per capire la statura dell’uomo che Cosa Nostra voleva annientare, bisogna partire dall’inizio.

Dalla Libia a Messina: la storia di un uomo perbene

Nato a Piazza Armerina il 22 ottobre del 1930, visse la sua infanzia in Libia, dove il padre era sottufficiale della Marina. Rientrato in Sicilia dopo la guerra, la sua famiglia si stabilì a Messina, città dove Boris crebbe, conseguì la laurea in Giurisprudenza e si distinse come atleta, giocando a basket in Serie B con la maglia del CUS Messina. Dopo il matrimonio con la sua Ines, si trasferì a Milano, diventando manager in una società manifatturiera.

Era un padre attento e amorevole per i suoi tre figli, Alessandro, Emanuela e Salima. Un uomo la cui gentilezza e umanità sono rimaste impresse nel ricordo più intimo. “Ricordo papà a casa che si metteva a quattro zampe per farci giocare a cavalluccio“, ha raccontato la figlia Salima. “Oppure mentre ci raccontava delle storie bellissime di cui ogni volta cambiava il finale. E poi lo rivedo mentre suona la chitarra. Aveva una grande passione per il jazz che trasmise a noi“.

Fino a qui, la sua storia somiglia a quella di tanti. Ma Boris Giuliano non aveva dimenticato la sua Sicilia.

La Strage di Ciaculli e la chiamata del dovere

Negli anni ’60, di mafia a Palermo non si parlava ancora. Il fenomeno era minimizzato, derubricato a microcriminalità. Questo, finché il 20 luglio 1963 la Strage di Ciaculli, in cui morirono sette uomini delle Forze dell’ordine, non costrinse lo Stato a guardare in faccia il mostro. Quell’evento scosse le coscienze, portando all’istituzione della prima Commissione Parlamentare Antimafia. E scosse anche Giorgio Boris Giuliano.

Decise di dover fare la sua parte. Nel 1962 vinse il concorso da Commissario e, dopo Ciaculli, scrisse una lettera al capo della Mobile di Palermo per essere assegnato alla sezione omicidi. Tornò in Sicilia, ma non dimenticò mai la sua umanità. “Quando in questura a Palermo arrivava un bambino povero che si era perso, lui lo portava a casa nostra“, ricorda ancora la figlia Salima. “Invece di lasciarlo negli uffici freddi, suonava il campanello e lo presentava a me e alle mie sorelle. Così, per dargli un conforto“.

Il Metodo Giuliano: seguire i soldi, svelare i nessi

Boris Giuliano

A Palermo, Giuliano capì subito che per fronteggiare un nemico così potente occorreva una nuova strategia. Forte della sua specializzazione alla scuola dell’FBI a Quantico, con cui instaurò un forte legame di collaborazione, ricostruì la Squadra Mobile, circondandosi di poliziotti abili e coraggiosi, come Filadelfo Aparo, che cadrà anche lui per mano mafiosa.

Il suo metodo era rivoluzionario per l’epoca: seguire i soldi. Fu tra i primi a capire che la Sicilia era diventata il crocevia del traffico internazionale di droga. Le sue indagini diedero il via alla celebre inchiesta “Pizza Connection”. L’intuizione trovò conferma nel giugno 1979, quando all’aeroporto di Palermo furono scoperte due valigie con 500.000 dollari in contanti, pagamento per una partita di eroina.

Ma Giuliano andò oltre. Indagò sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro e sull’omicidio del mafioso Giuseppe Di Cristina, trovando assegni che lo condussero fino al banchiere Michele Sindona. Per questo incontrò a Milano l’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore della banca di Sindona, che sarebbe stato ucciso appena dieci giorni prima di lui.

Il suo acume investigativo fu tale che un magistrato scrisse di lui: “Se altri organismi statali avessero adeguatamente compreso e assecondato l’intelligente impegno investigativo del Giuliano, probabilmente le strutture organizzative della mafia non si sarebbero così enormemente potenziate e molti efferati assassini, compreso quello dello stesso Giuliano, non sarebbero stati consumati“.

L’agguato e una lunga attesa di giustizia

Il 21 luglio 1979, Boris Giuliano entrò al bar Lux per un caffè. Era di spalle quando Leoluca Bagarella gli sparò sette colpi. Morì per quegli ideali che, come disse la moglie Ines, “era disposto ad affrontare fino alla fine”.

Per il suo omicidio vennero condannati all’ergastolo come mandanti i vertici di Cosa Nostra, da Riina a Provenzano. Ma solo le rivelazioni di Tommaso Buscetta al Maxiprocesso permisero di ricostruire l’intera vicenda, confermando che le sue indagini sul traffico di droga erano state la causa della sua condanna a morte.

Un’eredità che vive

Ai suoi funerali parteciparono migliaia di cittadini dei quartieri popolari, un omaggio spontaneo al poliziotto che non aveva mai dimenticato di essere un uomo. Lo Stato lo onorò con la Medaglia d’oro al valor civile. Ma la sua eredità più grande vive nel metodo che aprì la strada a Falcone e Borsellino e nell’esempio di rettitudine che ha ispirato tanti, a partire dal figlio Alessandro, oggi ai vertici della Polizia di Stato.

A 46 anni dalla sua morte, ricordare Boris Giuliano significa onorare il coraggio di un gigante che, pur camminando da solo, ha lasciato un’impronta indelebile sul sentiero della giustizia.

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