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L’Italianizzazione delle Parole nel Ventennio Fascista: Una Battaglia Linguistica per l’Autarchia Culturale. Dal “Quisibeve” alla “Palla corda”

- 30/05/2025
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L’era del “voi” imperiale e della caccia all’esterofilia: come il regime cercò di plasmare l’identità nazionale anche attraverso il vocabolario, bandendo termini stranieri e coniando improbabili sostituti. Un’analisi di una singolare pagina della storia linguistica italiana.

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di Giuseppe Bevacqua

L’ossessione per l’autarchia, la purezza e l’affermazione di una presunta superiorità nazionale caratterizzarono profondamente il ventennio fascista in Italia. Questa spinta totalizzante non risparmiò alcun aspetto della vita quotidiana, investendo persino il linguaggio. Il regime di Benito Mussolini, infatti, intraprese una vera e propria “battaglia linguistica” con l’obiettivo di epurare l’italiano da ogni influsso straniero, considerato un segno di debolezza e contaminazione culturale. In nome di un’asserita “autarchia linguistica”, si assistette a un sistematico tentativo di italianizzare parole provenienti da altre lingue, soprattutto dal francese e dall’inglese, allora considerate veicolo di culture decadenti o ostili.

La Genesi di una Crociata Linguistica

Fin dagli anni ’20, ma con un’intensificazione a partire dagli anni ’30 e con la proclamazione dell’Impero nel 1936, il regime fascista promosse una campagna martellante contro i cosiddetti “forestierismi” o “barbarismi”. L’Accademia d’Italia, fondata nel 1926 e divenuta uno dei principali strumenti di propaganda culturale del fascismo, ebbe un ruolo centrale in questo processo. Intellettuali allineati e zelanti funzionari si dedicarono con fervore alla ricerca di sostituti italiani per termini ormai entrati nell’uso comune.

L’obiettivo dichiarato era duplice: da un lato, rafforzare l’identità nazionale attraverso la valorizzazione del patrimonio linguistico autoctono, considerato erede diretto della grandezza di Roma; dall’altro, eliminare ogni traccia di dipendenza culturale dall’estero, in linea con la politica autarchica perseguita in campo economico. Si riteneva che l’uso di parole straniere fosse non solo inelegante, ma addirittura antipatriottico, un tradimento della purezza della lingua di Dante.

Un Esercito di Neologismi: Creatività e Grottesco

La crociata contro le parole straniere portò alla creazione di un vasto repertorio di neologismi, alcuni dei quali destinati a cadere rapidamente nell’oblio, altri a suscitare ironia, e solo una minima parte a entrare, seppur temporaneamente, nell’uso. La fantasia dei “puristi” si sbizzarrì nel tentativo di trovare alternative italiche, spesso attingendo a radici latine, a dialetti o semplicemente inventando di sana pianta.

Ecco alcuni degli esempi più emblematici di questa campagna di italianizzazione:

  • Sport e Tempo Libero: Il termine sport divenne “diporto”. Il football fu trasformato in “calcio” (termine che peraltro già esisteva e che si impose definitivamente, anche se la spinta fascista ne accelerò l’ufficializzazione), il goal in “rete”, il corner in “calcio d’angolo”, il penalty in “calcio di rigore”. Il rugby divenne “palla ovale”, il basket “palla al cesto” o “pallacanestro” (quest’ultimo attecchì), la boxe “pugilato”. Il tennis fu proposto come “pallacorda” (un recupero storico non privo di una sua logica, ma che non soppiantò l’originale). Il club divenne “circolo” o “convegno”. L’hobby si trasformò in “passatempo” o “diletto”.
  • Gastronomia e Bar: Il bar stesso fu oggetto di italianizzazione, diventando “mescita” o, in modo più popolare ma meno ufficiale, “quisibeve”. Il sandwich fu ribattezzato “tramezzino” (un neologismo fortunato, coniato da Gabriele D’Annunzio e adottato dal regime, ancora oggi in uso). Il cocktail divenne “bevanda arlecchina” o “polibibita”. Il croissant fu tradotto come “cornetto” (già in uso, ma ne fu rafforzata la preferenza). Il dessert divenne “fin di pasto” o “le ghiottonerie”. Lo champagne fu chiamato “sciampagna”.
  • Abbigliamento e Moda: Il cache-nez (sciarpa) divenne “sciarpa” o “cachennè” (con una grafia italianizzata). I blue jeans, sebbene non ancora così diffusi come nel secondo dopoguerra, venivano indicati come “pantaloni da lavoro” o con perifrasi. Il frac divenne “abito a coda di rondine”.
  • Tecnologia e Varie: Il film fu italianizzato in “pellicola” (termine tecnico già esistente ma esteso nell’uso comune) o, più raramente, “filmo”. Il set cinematografico divenne “quadro” o “scena”. Il regista (dal francese régisseur) fu inizialmente contrastato, proponendo “ordinatore di scena”, ma finì per imporsi. Il ticket fu trasformato in “scontrino” o “biglietto”. Il watt divenne “volta”. Il garage fu proposto come “rimessa”. Il chauffeur divenne “autista” (parola che si affermò). Il tunnel divenne “galleria”. Il termine standard fu sostituito da “norma” o “tipo”.

La Reazione Popolare e il Fallimento Sostanziale

Ventennio fascista, autarchia

Nonostante l’imposizione dall’alto e la propaganda martellante, la campagna di italianizzazione linguistica ottenne risultati contrastanti. Se alcuni neologismi, come “tramezzino”, “autista”, “regista” o “pallacanestro”, riuscirono a entrare nell’uso comune e a sopravvivere anche dopo la caduta del regime, molti altri furono percepiti come goffi, innaturali o semplicemente ridicoli.

La popolazione, pur subendo la pressione del regime, spesso continuò a utilizzare i termini stranieri nella conversazione privata, o ne accolse le alternative italiane con una certa sufficienza o ironia. La lingua, organismo vivo e in continua evoluzione, si dimostrò più refrattaria ai diktat di quanto il fascismo avesse previsto. L’uso forzato di certi termini italianizzati divenne in alcuni casi un ulteriore elemento di distacco tra la retorica ufficiale e la realtà quotidiana dei cittadini.

L’Eredità di una Battaglia Perduta

Con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la caduta del fascismo, la maggior parte delle parole italianizzate a forza scomparve rapidamente dall’uso, soppiantata nuovamente dai termini stranieri originali o da alternative più naturali e spontanee emerse nel frattempo. Tuttavia, questa singolare vicenda linguistica rimane una testimonianza significativa del tentativo totalitario di plasmare non solo la politica e la società, ma anche la cultura e l’identità più intima di una nazione attraverso il controllo delle parole.

L’esperienza del ventennio fascista ci ricorda come la lingua sia un campo di battaglia simbolico e come i tentativi di ingessarla o purificarla secondo criteri ideologici siano spesso destinati a scontrarsi con la sua intrinseca vitalità e la sua capacità di assorbire e adattare influenze esterne. Un monito, ancora attuale, sulla libertà di espressione e sulla naturale evoluzione del linguaggio come specchio di una società aperta e interconnessa.