
L’arrivo di un ispettore da Roma e il dibattito in aula certificano una verità che nessun voto può cancellare: in Sicilia si continua a governare per durare, non per cambiare.

A Roma sembra che Antonio Tajani abbia mormorato: «Devo pensarci su». È la vecchia prudenza democristiana che non passa mai di moda, quella che cerca di curare la ferita senza uccidere il paziente. Ma alla fine, pare che il leader di Forza Italia si sia convinto: in Sicilia serve qualcuno. Non un commissario, parola troppo dura che sa di fallimento, ma una «figura super partes», un ispettore insomma. Si fa il nome di Alessandro Battilocchio, romano, esperto di periferie. A lui toccherebbe il compito ingrato di scendere a Palermo per ascoltare i lamenti di un partito spaccato, dove la gestione del potere somiglia sempre più a un feudo e sempre meno a una democrazia interna.

L’obiettivo è «normalizzare», verbo che in politica spesso significa mettere la polvere sotto il tappeto prima che qualcuno inciampi. Perché il malessere è palpabile: c’è chi accusa il governatore Renato Schifani di aver sovrapposto il ruolo di Presidente della Regione a quello di capo partito, esautorando il dibattito. E c’è un segnale che arriva direttamente dalla Capitale, sottile ma tagliente: Tajani ha affidato a Giorgio Mulè il coordinamento della campagna referendaria sulla Giustizia. Proprio quel Mulè che Schifani dava per finito, dicendo in giro che non sarebbe stato nemmeno ricandidato. Evidentemente, le storie della politica hanno finali che i protagonisti non sempre riescono a scrivere da soli.
Ma mentre nel palazzo azzurro si gioca a scacchi, a Sala d’Ercole oggi si fa la conta. Va in scena la mozione di sfiducia contro Schifani. I numeri, sulla carta, dicono che il governo dovrebbe tenere: le opposizioni — Pd, M5s e Controcorrente — partono da 23 voti. Per mandare tutti a casa ne servono 36. Servirebbero tredici franchi tiratori, merce rara e costosa. Eppure, al di là dell’aritmetica, restano i fatti elencati nei quindici punti dell’accusa.
È un elenco lungo e doloroso. Si parla di inchieste giudiziarie, di quella “questione morale” che ogni tanto riaffiora per poi essere subito dimenticata. Le opposizioni puntano il dito contro le nomine nella sanità e nella burocrazia, figlie di logiche di appartenenza più che di competenza. Si contesta il reintegro dell’assessore leghista Sammartino dopo la sospensione giudiziaria, e si ricorda l’ombra delle indagini che hanno sfiorato l’ex presidente Cuffaro.
Schifani è accusato di aver privilegiato i rapporti con ristrette cerchie della maggioranza, lasciando che le riforme restassero lettera morta e che l’azione amministrativa si perdesse nelle nebbie degli assessorati. C’è una frase nella mozione che pesa più di tutte: «Disparità di trattamento». Si riferisce a come sono stati gestiti gli assessori della Dc rispetto ad altri, senza verifiche su chi occupava posizioni di vertice nella sanità.
Forse stasera Schifani rimarrà al suo posto, salvato dai numeri di una maggioranza litigiosa ma attaccata alla poltrona. Ma l’arrivo di un ispettore da Roma e il dibattito in aula certificano una verità che nessun voto può cancellare: in Sicilia si continua a governare per durare, non per cambiare. E a pagarne il prezzo, come sempre, sono i cittadini che aspettano risposte, mentre la politica si occupa solo di se stessa.











