Come accordi, nomine e potere vengono decisi a tavola, lontano dai bisogni di famiglie e imprese e sulla pelle della gente.

di Giuseppe Bevacqua
C’è un rito stanco e immutabile che scandisce i tempi della politica siciliana, un rito che non si celebra nelle aule parlamentari o nelle piazze, ma attorno a una tavola imbandita. È la “cena”, il simposio del potere dove i problemi non si risolvono, ma si appianano, dove prendono i vita i “patti”. Dove le crisi non si superano, ma si spartiscono. E mentre i calici si alzano in brindisi soffocati, la Sicilia reale, quella delle famiglie, dei lavoratori e degli imprenditori, sprofonda in un silenzio assordante.
La politica, soprattutto qui, ha smarrito da tempo la sua vocazione più alta per trasformarsi in un mero strumento di gestione del potere: un comitato d’affari per la spartizione di incarichi, prebende e mancette. Si è creato un abisso incolmabile tra il “Palazzo” e la strada. Da una parte, una classe dirigente miope e autoreferenziale, impegnata in giochi di corrente e veti incrociati; dall’altra, l’eroismo quotidiano di chi non fa i conti con il fine mese, ma ormai con la metà del mese. Una realtà ignorata, quasi fastidiosa per chi è troppo impegnato a stabilire a chi andrà la prossima presidenza di commissione o il prossimo incarico in una società partecipata.
L’economia, l’imprenditoria, l’occupazione, il futuro stesso dei nostri giovani: tutto assomiglia sempre più a una fortezza diroccata, violata non da un nemico esterno, ma dall’interesse personale di pochi che ne saccheggiano le fondamenta. E la soluzione a tutto questo? Una stretta di mano davanti a un piatto di pasta. Un accordo siglato tra una portata e l’altra per assegnare postazioni ad “amici” e calmare i dissidi interni a un partito o a una coalizione.
Mentre si muovono centinaia di milioni di euro, destinati a opere, finanziamenti e progetti che troppo spesso si perdono nei rivoli della burocrazia o, peggio, dell’interesse di parte, i cittadini assistono a questo spettacolo con un misto di rabbia e rassegnazione. C’è la consapevolezza crescente che sia ora di smettere di essere spettatori silenziosi di giochetti che puzzano di vecchio, di una decadenza maleodorante che soffoca ogni speranza.
Il voto resta l’unica arma, ma è un’arma che molti non sanno più come usare. La disillusione è palpabile. La sentiamo nell’addio silenzioso dei nostri giovani migliori, costretti a cercare altrove un futuro che la loro terra nega loro. La vediamo nella rassegnazione di chi smette persino di cercare un lavoro qualificato, perché sembra essere appannaggio esclusivo di chi è disposto a inginocchiarsi davanti al trono politico di turno, barattando dignità e competenza per una promessa.
Questa non è più politica. È la gestione di un condominio in cui pochi decidono per tutti, preoccupandosi solo di mantenere il proprio appartamento con vista. Ma i cittadini, gli elettori, non sono più disposti a pagare le spese di questo banchetto a cui non sono stati invitati. Il conto, prima o poi, arriva per tutti. E il rischio è che a pagarlo, ancora una volta, sia l’intera Sicilia, con il suo presente e con il futuro rubato ai suoi figli.

