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Finanziamento privato ai partiti. “Nessuno può servire due padroni: Dio e il denaro” (Mt 6.24)

Quali sono i limiti stabiliti dalla Legge? E qual è la soglia oltrepassata la quale la democrazia diventa serva del denaro?

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di SANTITA’

Malgrado il messaggio che molto spesso si tende a far passare, la Legge italiana cerca, seppure faticosamente, di garantire la libertà (nella, e) della democrazia, con norme che siano un freno a un eventuale passaggio involutivo delle Comunità da cittadini a sudditi.

Con la legge 21/02/2014 n° 13 è stato abolito il finanziamento pubblico diretto ai partiti, e da allora lo Stato non ci rimette soldi di tasca, perchè il sostentamento economico dei partiti riposa sulla generosità volontaria di persone, fisiche o giuridiche, che vogliono impegnarsi economicamente per difendere, ed eventualmente rappresentare, un’ idea, un programma, un progetto politico; non c’è più un contributo automatico dello Stato per i partiti, e l’ equilibrio economico riposa su contributi volontari o altre forme lecite.

La generosità, espressa tramite bonifico bancario, deve essere sempre tracciabile, ed entro certi limiti dà anche diritto a deduzioni (..per le persone fisiche) e detrazioni (..per le persone giuridiche) dall’ imponibile al momento della dichiarazione dei redditi (ma questo è un capitolo a parte..).

Particolarmente importante è l’ obbligo della tracciabilità: la generosità deve esprimersi nei modi stabiliti dalla legge 09/01/2019 n° 3, di modo da consentire l’ identificabilità del donatore e la verifica del flusso per garantire trasparenza e rendicontabilità.

Inoltre, non ni scuddamu, parallelamente esiste anche una forma di finanziamento indiretto, u famosu 2×1000, con il quale il contribuente può destinare, al momento della dichiarazione dei redditi, una quota del proprio IRPEF al Partito.

La Legge permette la contribuzione volontaria da soggetti privati e stabilisce anche chi può/non può finanziare, onde evitare situazioni di conflitto di interesse, con restrizioni rigidissime per soggetti che intrattengono rapporti con la Pubblica Amministrazione.

Per ogni partito, per donazioni, beni o servizi da parte di privati

(..anche per interposta persona) è stabilito un tetto massimo di 100.000

€ (art. 10 comma 7 d.l. 28/12/2013 n° 149).

L’ art. 10 d.l. 28/12/2013 n° 149 al 7° comma pone una soglia di sbarramento: non vieta di donare, ma indica il limite oltrepassato il quale l’ offerta diventa un’ anomalia.

Non sono previste pene, ma la Legge sa distinguere ciò che è dono da ciò che è eccesso.

E l’ eccesso, quando supera i 100.000 €, smette di essere luce e diventa ombra: un’ ombra che pesa su chi dà e su chi prende.

Il rischio del conflitto di interesse – cioè il pericolo che un privato donatore possa influenzare l’ attività politica del partito o ottenerne i favori – nasce spontaneo, e si verifica essenzialmente in 3 circostanze, i 3 peccati capitali di un sistema che, fisiologicamente, lascia la porta aperta alla notoria occasione che fa l’ uomo ladro:

  • se chi sgancia piccìuli ha appalti, concessioni o relazioni contrattuali con lo Stato, la generosità può trasformarsi in contropartita, rappresentando – anche involontariamente – un condizionamento spirituale per l’ uomo dietro l’ istituzione, specialmente se il destinatario è il Suo partito;
  • quando un’ impresa che lavora per lo Stato, o ha appalti o concessioni, elargisce generosità a un partito, non fa un’ offerta: compra un favore. Con un colpo di bacchetta magica, la democrazia si trasforma in merce di scambio.

Se chi riceve denaro dallo Stato gli rifà i soldi al partito in carica, il potere non è più libero, perchè è debitore.. ..e un potere indebitato non può mai essere imparziale.

Un’ impresa che lavora per lo Stato e finanzia il partito al governo non sostiene la politica: la orienta. E dove il denaro orienta, la libertà si perde.

E’ il tributo del pubblicano travestito da donazione: sembra un atto generoso, ma in realtà lega il cuore del Governante a chi gli riempie le mani.

Quando chi prende denaro pubblico restituisce denaro al partito è come se il pastore accettasse il latte dalle pecore che deve custodire: da quel momento, non le guida più, le teme..

..e questo perchè nasce un doppio filo: finanziandolo, l’ Impresa è legata al Politico, e il Politico al suo Finanziatore, sicchè il Popolo, cornuto, resta libero solo sulla carta.

Il conflitto non è solo potenziale, ma reale: il Partito, quindi, di riflesso, La Politica (largamente intesa), può risultare incatenata a condizionamenti economici e quindi, già di fondo, sicuramente non libera di servire il bene comune (..qualora ne avesse interiormente l’ intenzione).

Il terzo ed ultimo peccato capitale, collegato ai precedenti 2, è come l’ odore del gas, pesante, invisibile, intangibile..

• ..è la probatio diabolica di un peccato che si consuma nell’ ombra: un patto che esiste solo nel silenzio, così perfetto da non lasciare prove, così evidente da non destare dubbi; un sistema che vive di strette di mano che non si fotografano e di promesse che non si scrivono: tutti vedono gli effetti, ma nessuno potrà mai mostrarne la causa. La colpa è certa, ma la prova non nascerà mai.

Quando il potere pubblico diventa strumento di vantaggio privato, il Tempio della democrazia viene profanato..

..perchè il denaro compra il potere, e il cuore della Comunità si corrompe.

La malattia intrinseca a questo sistema sta in ciò che quando pochi grandi donatori diventano influenti, fisiologica diventa anche la disparità, l’ iniquità nell’ utilizzo del potere, sullo sfondo del freddo controbilanciamento potere-rischio d’ impresa che guida l’ imprenditoria privata.

Alla luce di quanto esposto, ciò premesso, è doveroso ora soffermare lo sguardo sulla realtà dei fatti, per discernere se e in che misura tanti magisteri non coincidano con le figure delittuose che il Codice Penale affettuosamente chiama corruzione, concussione, peculato, abuso d’ ufficio, finanziamento illecito ai partiti (..ex art. 7 legge 195/1974), traffico di influenze, malversazione ai danni dello Stato e altri peccati contro la Cosa Pubblica.

Ricordiamoci che il Codice Penale parla così: se ciò che accade nella vita è l’ immagine fedele di ciò che la Legge descrive, l’ ipotesi di reato non è più un’ ombra, ma una realtà, e la colpa prende forma e corpo quando il gesto dell’ uomo ricalca esattamente la figura che la Legge penale ha disegnato.

Nella legge penale, quando l’ ombra e il corpo coincidono, il peccato diventa fatto.

Il reato nasce quando la vita ripete fedelmente ciò che la Legge penale prevede come illecito, quando la realtà e la norma si riflettono l’ una nell’ altra, come 2 specchi che combaciano.

Come ogni albero si riconosce dai frutti, così il diritto ci ricorda che ogni reato si comprende guardandolo nella sua struttura, sicchè prima di scendere nel dettaglio, è bene offrire una bussola, un rapido cenno alla sistematica quadripartita del reato, l’ architettura concettuale che sostiene ogni figura delittuosa.

Ogni reato riposa su una quadratura, un impianto a 4 angoli portanti che ne definiscono forma e sostanza, una sagoma quadrangolare che rappresenta la figura delittuosa con 4 punti fermi che ne disegnano il perimetro e ne sorreggono l’ esistenza.

In ogni reato c’è:

  • un fatto tipico, che è il comportamento descritto dalla Legge penale,
  • la illiceità, cioè che la omissione o commissione del fatto non sono giustificati, in quanto non c’è nè difesa nè necessità,
  • la colpevolezza, cioè la possibilità di rimproverare la omissione o commissione del fatto a una persona per “averlo fatto apposta” o meno, • la punibilità, cioè l’ assenza di cause che escludano la pena.

Sono queste le 4 colonne portanti su cui poggia l’ intera architettura della legge penale e attorno a cui ruota il funzionamento e lo studio del sistema penalistico, che raffigurano un reato come un comportamento che corrisponde a quanto la Legge vieta, che non ha una giustificazione valida, che può essere rimproverato a chi lo commette per “averlo fatto apposta” o meno, e che il Legislatore decide di punire.

E’ raccomandabile anche non dimenticare che il Codice Penale non pesa le intenzioni, ma le corrispondenze: il delitto c’è quando il fatto concreto della vita reale riproduce l’ immagine inquadrata dalla norma incriminatrice come fatto delittuoso.

E’ la somiglianza perfetta a dare sostanza alla colpa, perchè quando il fatto concreto della vita vissuta combacia con l’ immagine astrattamente prevista dal legislatore penale, il reato non è più dubbio, ma certezza.

La Legge penale funziona così.

E non conosce eccezioni.

Questi sono insegnamenti fondanti la scuola penalistica, ciò che la dottrina tramanda immutata da generazioni, in tutti gli Atenei d’ Italia.

Il resto, sono rispettabili opinioni.

Ci soffermeremo su 2 gesti che, presi da soli, sembrano innocui, quasi quotidiani: il Sindaco che affida incarichi a professionisti e imprese che poi finanziano il suo partito, e il Sindaco che nomina nelle società partecipate persone che, puntualmente, restituiscono denaro tramite contributi e donazioni.

Li guarderemo non dalla superficie, ma dalla profondità: dalla linea sottile dove la luce mostra solo ciò che vuole e l’ ombra rivela ciò che nessuno dice.

In queste dinamiche non parla ciò che si vede: parlano i silenzi, le simmetrie, le corrispondenze, i debiti che scendono nel fondo senza lasciare segni in alto.

Ed è lì, in quel dialogo muto fatto di gesti che nessuno confesserà mai, che affiora l’ architettura silente del potere, che ora metteremo a nudo senza arretrare di un passo.

E’ lì che prende forma la geometria occulta che Noi siamo chiamati a leggere nelle sue pieghe più oscure.

Non procederemo per impressioni, ma per sovrapposizione: prenderemo i fatti così come respirano nella vita quotidiana e li accosteremo, millimetro dopo millimetro, alla figura astratta delineata dalla Legge, per vedere se le linee coincidono o se divergono.

Con questo metodo, asciutto e implacabile, concentreremo l’analisi su 2 comportamenti che non gridano, ma insinuano.

Osserveremo se, e fino a che punto, questi comportamenti combaciano con il disegno normativo del reato, perché è nel punto in cui la realtà si sovrappone alla Legge, che la Verità smette di essere un sospetto e diventa una figura riconoscibile.

LA CORRUZIONE: IL SINALLAGMA. UN POTERE INDEBITATO E’ UN POTERE VINCOLATO

Si ha “corruzionequando un atto pubblico genera un’ utilità privata o partitica, in un rapporto di scambio, anche tacito, e con consapevolezza reciproca.

Tra tutti i reati contro la P.A., la corruzione è quello che più assomiglia a un patto di scambio, in cui l’ esercizio del potere è la contropartita del prezzo pagato per trasformare il potere pubblico in strumento di vantaggio privato o politico.

Prima ancora che reato, la corruzione è un peccato contro la verità del potere, nel cui momento consumativo, chi amministra la Città smette di servire il Popolo e comincia a servire un altro padrone.

E’ il cedimento al denaro che compra i cuori, lo scambio dei talenti per 30 denari, la vendita dell’ autorità al miglior offerente che traforma il Bene Comune in un’ asta.

La corruzione è un reato “relazionale”: non punisce il denaro, punisce il legame, e opera come una forza invisibile: cambia la direzione dello sguardo.

Il Potere non guarda più dall’ alto del servizio, ma dal basso dell’ interesse.

E, come ogni peccato che nasce nel cuore, inizia in silenzio, quasi con pudore, e solo dopo diventa sistema.

Il nodo più delicato e pericoloso della corruzione è il suo sinallagma, il do ut des tra chi esercita il potere pubblico e chi pretende un ritorno privato, lo scambio nascosto tra l’ atto d’ ufficio e il vantaggio personale o partitico, il patto proibito che trasforma il servizio reso alla omunità in merce di reciprocità indebita. A manu ca duna, voli ripigghiari: e quando la mano che dà è quella pubblica, ciò che vuole riprendersi non è più solo denaro, ma obbedienza politica.

La parola “sinallagma” descrive ciò che, nel mondo dei contratti privati, è cosa normale, buona e giusta: la mutualità, tanti cchietti, tanti buttùna, il rapporto equilibrato che sostiene gli scambi legittimi. Quando il sinallagma entra nel Tempio della Cosa Pubblica diventa veleno, un veleno che intossica le relazioni, corrompe le intenzioni, piega i cuori e trasforma il servizio in scambio, la giustizia in favore e il bene comune in merce di contrattazione.

E’ una tossina lenta, che non uccide subito: crea dipendenza.

Chi la assaggia una volta, non riesce più a farne a meno.

Il potere dopato dalla restituzione smette di essere potere: diventa schiavitù.

Quando il potere si inginocchia davanti all’ altare del Dio denaro e/o del finanziamento al partito (..la sua forma politica) il potere non è più libero, è un potere che non guarda più il prossimo negli occhi, perché deve guardare la mano che lo paga e che finisce per servire soltanto chi può comprare il suo silenzio.

In quel momento, la regola non scritta diventa una sola: cu paga, sona.

E, come ogni dipendenza, più riceve e più vuole ricevere.

La P.A. non è un mercato, u Comune non è na putìa, un banco dei cambi dove ci si presenta con l’ obolo sperando nella grazia del funzionario. Il sinallagma della corruzione è vecchio quanto l’ uomo: l’ esercizio del potere pubblico barattato con un’ utilità privata o partitica.

Uno scambio perfetto nella forma, ma perverso nella natura: è lì che si nasconde la corruzione, nel punto in cui l’ apparente legalità dell’ esercizio del potere pubblico maschera intenzioni poco ortodosse. E’ in questa finta simmetria che il peccato della corruzione mette radici, trasfigurando il potere in merce e la fedeltà al popolo in debito verso pochi.

La controprestazione non è più il bene della Città, ma il vantaggio del singolo o del partito.

Il potere, che dovrebbe essere un dono, diventa debito.

E il debito, come ogni vizio, pretende sempre una nuova dose. Per questo il sinallagma, qui, è peccato gravissimo: perché piega il potere pubblico alla logica del baratto, introduce lo scambio dove dovrebbe esserci imparzialità, obbliga l’ autorità a restituire favori invece che giustizia e lega le mani del Governante non alla Comunità, ma ai suoi finanziatori.

Il Politico che accetta uno scambio nascosto non è più libero.

Il Sindaco che deve incarichi ai donatori non è più arbitro.

Il Segretario Comunale che finanzia il partito non è più garante: è parte in causa. La sua firma non vigila, obbedisce.

Il Presidente del Consiglio comunale che dona al partito che governa, non è più arbitro, è schierato: la sua neutralità si spezza nel momento stesso in cui apre il portafoglio.

Quando l’ esercizio del potere pubblico non nasce dal discernimento del bene comune, ma dall’ attesa di un ritorno, la corruzione ha già messo radici: io faccio oggi, tu restituisci domani.

E’ il sinallagma che intossica la democrazia, che rende il potere schiavo e che, nell’ anima del Governante, prende il posto della coscienza. Questo esame di coscienza era necessario per osservare senza ingenuità alcuni comportamenti che attraversano la vita pubblica: sindaci che creano società partecipate e poi ci siedono persone che restituiscono denaro al partito; affidamenti diretti a professionisti e imprese che, come per riflesso condizionato, tornano a finanziare la formazione politica che ha affidato loro il lavoro; Segretari Comunali e Presidenti del Consiglio Comunale che, pur essendo figure di garanzia, diventano contribuenti del partito che dovrebbero equilibrare e controllare. In tutte queste situazioni, la domanda è: il potere è libero o indebitato? serve il Popolo o restituisce favori? risponde alla Costituzione e alla coscienza, o alle casse del partito?

Solo se abbiamo il coraggio di farci queste domande scomode, confrontando la realtà con le parole della Legge, riusciremo a riconoscere dove va ad annidarsi la corruzione..

..perché la corruzione nasce quando si accetta di trasformare il potere in debito verso qualcuno che non è il Popolo; da lì in poi, l’ esercizio del potere pubblico rischia di essere più una restituzione che un servizio.

Dopo aver compreso l’anima della corruzione, occorre ora rivolgere lo sguardo ai comportamenti concreti, perché è nei gesti quotidiani, nelle scelte, nelle nomine, negli incarichi, nei soldi che entrano e escono, che la teoria incontra la vita.

Ed è lì, in quei magisteri che io e i miei Compagni di viaggio andiamo ad indagare, che possiamo riconoscere se il potere resta servizio o se, invece, si piega allo scambio.

Passiamo dunque ad analizzare, uno alla volta, quei comportamenti che più somigliano alle ombre in cui il peccato della corruzione ama nascondersi. Ora, accostando la luce alle tenebre per vedere ciò che davvero emerge, focalizzeremo l’ attenzione su 2 comportamenti specifici: il Sindaco che affida incarichi a Professionisti e Imprese che poi finanziano il partito, e il Sindaco che crea società partecipate i cui componenti elargiscono, poi, denaro al partito.

Occorre verificare se e in quale misura queste condotte combacino con le figure previste dal Codice Penale, in particolare agli artt. 318 e 319, e fino a che punto la loro dinamica possa sovrapporsi alla fattispecie delittuosa: solo accostando la realtà concreta alla legge potremo valutare la loro effettiva congruità giuridica.

La corruzione è uno spostamento interno della volontà quasi impercettibile, quando si smette di chiedersi “cosa è giusto?” e si inizia a chiedersi “a chi conviene?”: il servizio diventa merce, l’ autorità diventa debito, la funzione diventa scambio.

La Legge penale, agli artt. 318 e 319, individua quale “corrotto” il pubblico ufficiale che, per esercitare le sue funzioni o fare qualcosa che vada contro i suoi doveri, riceve o accetta la promessa di un’ utilità indebita.

Non serve un contratto scritto nè u pizzinu, è sufficiente che ci sia, anche solo in forma tacita, il do ut desanima nera del sinallagma corruttivo: “io uso il mio potere pubblico, tu mi dai un’ utilità“. Iniziamo osservando più da vicino il Sindaco che affida incarichi a professionisti e imprese che poi finanziano il partito.

E’ una storia che non comincia nel buio, ma nella luce degli uffici pubblici.

Il Sindaco ha tra le mani un fascicolo, una necessità del Comune di importo inferiore alla soglia dei 150.000 € che consente l’ affidamento diretto, senza gara, senza concorrenza, con discrezionalità ampia, quasi paterna.

E’ il d.lgs. 31/03/2023 n° 36, la Legge sugli appalti, che gli permette di scegliere.

Cu avi a cucchiara nte manu rimina a minestra comu voli.

Il Sindaco firma, convinto (..talvolta sinceramente) di farlo per il bene della Città.

Il Professionista o l’ Impresa incaricata lavorano, fatturano, ricevono il pagamento.

Tutto regolare, tutto documentato, tutto formalmente immacolato. Qui l’ esercizio della funzione è un gesto naturale, a mumentu banale: una firma a menzu a l’ autri, tra le tante della giornata.

Poi, però, succede qualcosa.

Raramente il giorno dopo, meno probabilmente, il mese dopo.

Ma succede.

Succede che il Professionista e/o l’ impresa appaltata compaiono negli elenchi dei contributi e delle donazioni al partito del Sindaco, pubblici e obbligatoriai sensi delle norme sulla trasparenza politica: elenchi che dovrebbero rassicurare, ma che quando si leggono con l’ attenzione di chi vede oltre il bianco della pagina e con l’ occhio che riconosce i legami enon i numeri, si trasformano in un presagio muto: non più semplici elenchi, ma tracce di un legame nascosto, come vene scure che pulsano sotto una pelle apparentemente sana.

Una generosità, un contributo, un sostegno, un “gesto di simpatia politica”.

Tutto è tracciato, trasparente, legale.

Nessun carabiniere entra in scena, nessun magistrato salta dalla sedia, nessuna prima pagina di giornale.

Il lettore attento, però, quello che guarda oltre ciò che vede, l’ uomo che sa leggere i segni del tempo, comincia a percepire un odore diverso, di quelli che non si cancellano con i selfie.

Una puzza sottile, di quelle che non si lavano via: u fetu della restituzione, firma olfattiva della corruzione.

Presi 1 a 1, l’ incarico e la donazione sono innocenti.

Presi insieme, in ordine di valuta, cominciano a parlare.

Presi come abitudine, diventano un linguaggio.

Presi come meccanismo ripetuto, diventano un sistema.

E i sistemi hanno sempre un motore: il sinallagma, l’ esercizio del potere pubblico in cambio di un’ utilità privata o partitica.

Un patto muto, ma chiarissimo.

Una reciprocità di fatto, anche se nessuno la nomina: “io ti scelgo, tu mi sostieni“.

Non c’è bisogno di sporcarsi le mani, basta sporcarsi le intenzioni.

Ora proviamo a guardare dentro la testa del Sindaco.

Non quella che indossa davanti al pubblico, quella è solo una maschera. Mi riferisco all’ altra, quella che porta con sè quando nessuno lo osserva: la testa che pensa mentre la mano firma, e che tradisce ciò che la bocca non dice e non dirà mai.

La corruzione non nasce nei faldoni del Comune, ma nella psicologia del potere.

Il primo incarico glielo do “perchè è competente“.

Il secondoperchè ha fatto un buon lavoro“.

Il terzopikkì ormai u canuscemu“.

Il quartoperchè dobbiamo mantenere una certa vicinanza“.

Nel frattempo, le donazioni arrivano come i messaggi: non obbligate, certo, ma “opportune”.

E ogni bonifico è un promemoria che taglia: “non ti scuddari i mia“. E cosa succede nella testa del Professionista?

Succede che il Professionista capisce perfettamente la musica, senza nessuno che gliela suoni.

Capisce che in quel Comune gli incarichi non dipendono solo dalla competenza, ma dalla “sensibilità”.

Sa che se non dona, rischia di essere escluso dal giro.

Sa che la porta della politica preferisce chi bussa con una ricevuta bancaria.

E dona. Forse convinto, forse rassegnato, forse imbarazzato.

O, al più, ttacca u sceccu unni voli u patruni.

La consistenza e il volume dei sentimenti dell’ animo umano sono insondabili.

Ma ciò nulla aggiunge e nulla toglie alla fattispecie di reato, perchè la

Legge non pesa le emozioni, ma le corrispondenze.

E la corrispondenza, qui, è troppo nitida.

A questo punto, non siamo più davanti a 2 atti separati, ma a 2 metà della stessa mela.

L’ una non vive senza l’ altra.

L’ incarico chiama la donazione, la donazione chiama il prossimo incarico, in un mercimonio malato che si autoalimenta come una dipendenza, un vizio che cresce come la sete.

E’ un ciclo, un’ oscillazione, un respiro.

E proprio in quel respiro nasce la sovrapposizione con la corruzione: l’ atto d’ ufficio c’è, l’ utilità c’è, il legame c’è, la consapevolezza c’è.

La corruzione, per sua natura, non contempla l’ ipotesi colposa: è sempre figlia del dolo.

Il fatto concreto della vita reale comincia a combaciare con la figura astrattamente delineata dal Codice Penale.

La fattispecie descritta dalla Legge penale prende forma nelle stanze del Comune, quello che era un concetto giuridico, diventa carne, cronaca, abitudine.

E l’ occasione che fa l’ uomo ladro?

Sta lì. Seduta in sala d’ attesa.

E’ nella soglia dei 150.000 €, che permette scelte rapide e poco controllate.

E’ nell’ avidità del partito, che guarda ogni incarico come un’ opportunità di autofinanziamento.

E’ nella paura dei professionisti di essere tagliati fuori se non mostrano “vicinanza”.

Avemu fattu sempre così, e così facemu.

Un anestetico della coscienza, una droga dolce, velenosa.

E’ nell’ illusione che, se tutto è formalmente corretto, nuddu scassa a minkia.

E’ nel silenzio complice dei corridoi, dove le parole non servono perchè tutti sanno cosa fare.

Dov’è il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore (Mt 6,21).

Se il tesoro è nella sede del Partito, il cuore del potere non è più nella Città.

Il Sindaco non guarda più la lista dei poveri, ma la lista dei donatori al Partito.

Il Professionista non lavora più per la Comunità, ma per mantenere la sua posizione.

E la democrazia, che dovrebbe essere arena di tutti, diventa un recinto per pochi.

La domanda, se non è “questo comportamento è già corruzione?”, è “quanto manca perchè lo diventi?”.

La risposta, spesso, è: poco.

Molto, troppo poco.

A virità è amara, ma è a virità.

Perchè quando l’ atto pubblico e la donazione si guardano in faccia, quando la firma e il bonifico si rispecchiano, quando il potere diventa debito, quando il professionista dona reiteratamente e anche prima che glielo chiedano, la corruzione non è più un reato lontano, è un’ ombra che cammina accanto al Sindaco mentre firma, e accanto al professionista mentre dona.

E’ dda. Pronta. Basta un passu supecchiu.

LA CASA DOVE L’ OBBEDIENZA E’ IL SILENZIO: IL LATO NASCOSTO DELLE PARTECIPATE

Ci sono comportamenti che non gridano, non rubano, non promettono, non chiedono: respirano.

Si muovono nelle fessure delle istituzioni come acqua che filtra tra le pietre: senza rumore, senza scosse, senza tracce immediate.

Il secondo comportamento che analizzeremo nasce esattamente così: non appare come un illecito, ma come un gesto legittimo; non domanda, nomina. Non mostra lo scambio, ma deposita un debito che scende in profondità, senza lasciare segni sulla superficie.

Per comprenderlo bisogna avere l’orecchio di chi ascolta l’eco della pietra lanciata in un barile vuoto: fuori tutto tace, ma il vuoto, dentro, risponde.

Così agiscono certe ombre: non si mostrano mai in ciò che accade, ma in ciò che risuona dopo.

Le società partecipate sono il luogo perfetto per questo tipo di ombra: hanno la forma della legalità, il volto dell’efficienza e il linguaggio del servizio.

Sono organismi ibridi, società create dal Comune per svolgere attività che la macchina pubblica, troppo lenta, non riesce a realizzare con la stessa rapidità.

La Legge le definisce “società controllate direttamente o indirettamente dall’ ente locale, chiamate a gestire servizi pubblici essenziali” (d.lgs. 19/08/2016 n° 175) in diversi settori come acqua, munnizza, trasporti, manutenzioni.

Sono strumenti neutri nelle mani della Legge, specchio fedele delle intenzioni di chi li usa, la longa manus del Comune nel mondo operativo. E, nelle mani del Sindaco, queste entità diventano leve potenti. È il Sindaco, infatti, che (..direttamente o tramite la Giunta) sceglie gli amministratori, definisce gli indirizzi strategici, approva i piani industriali, indica il Presidente, nomina i membri del CdA, decide chi guiderà queste strutture.

Non si tratta di poteri secondari, ma di poteri plasmanti, che modellano la vita della Città come mani esperte sulla creta, orientando destini, creando fedeltà, e lasciando nell’ ombra segni che solo chi conosce il silenzio del potere riesce davvero a vedere.

Con le scelte del Sindaco, una Partecipata cambia rotta, obbedisce a un indirizzo, si piega a un controllo: è la Legge a riconoscergli questa facoltà, perché affida alla Politica l’ alto compito di guidare ciò che sostiene il Popolo, convinta che il servizio alla Comunità debba nascere dal discernimento umano e non da un automatismo burocratico.

Ma ogni potere legittimo, quando è troppo concentrato, diventa fragile.

Fragile non per debolezza, ma per possibilità.

Possibilità di essere distorto, deviato, interpretato secondo l’interesse di pochi invece che secondo il bene di tutti.

La Società Partecipata, nella mente di chi governa, diventa un feudo da cui attingere fiducia, consenso e stabilità politica.

Sebbene non necessariamente, ma potenzialmente, sempre.

Ed è in questa potenzialità che l’ombra trova il suo varco. Perché chi siede in una partecipata può essere scelto, riconfermato, sostituito, è qualcuno che deve la propria posizione a una decisione politica. Qualcuno che, nel momento stesso in cui riceve la nomina, sente sulla pelle un filo sottile che lo collega a chi gli ha dato quel posto.

Il Sindaco firma, la Partecipata prende forma. Il Sindaco nomina, la Partecipata respira.

Il Sindaco rinnova, la Partecipata si inchina.

Nessuno vede nulla.

Nessuno sospetta nulla.

Nessuno vede il filo oscuro che li tiene uniti, nessuno sente la tensione nascosta tra il Sindaco e il Nominato, un filo teso nel buio che li lega, e che vibra solo per chi sa ascoltare.

Eppure quel legame esiste, cresce, si consolida.

La corruzione, nelle Partecipate, non arriva come un ladro.

Arriva come un’ idea.

Un pensiero che nasce silenzioso, minuscolo, invisibile agli altri, evidente a chi lo lascia entrare.

Il momento esatto in cui il Potere, invece di chiedersi cosa serve alla Città, comincia a chiedersi chi gli sarà utile e in che misura. Le Società Partecipate sembrano innocue, ma hanno memoria lunga; sono stanze silenziose dove si intrecciano decisioni, gratitudini, attese.

Ponti tra potere e gestione, tra politica e amministrazione..

..che possono essere attraversati nella trasparenza o nell’ombra. E quando l’ombra sceglie di attraversarli, non lascia impronte, ma conseguenze.

Per capire questo legame bisogna avere il coraggio di spingersi dove solitamente nessuno osa posare lo sguardo: non nei bilanci, ma nelle coscienze.

Il rapporto tra il Sindaco e i membri delle partecipate che donano al suo partito non nasce con un bonifico: nasce con una scelta. Una scelta che spesso inizia con un complimento, una chiamata, una stretta di mano: “ti vogliamo nel CdA”, “abbiamo pensato a te”, “ci fidiamo di te”.

È in quel momento che, nel cuore di chi viene nominato, si accende una fiamma doppia: da un lato l’orgoglio, dall’altro il debito.

L’ orgoglio dice: “Sono qualcuno, mi hanno scelto, mi hanno visto”. Il debito sussurra: “Senza di loro, non sarei qui”.

Da fuori, la scena è pulita: una nomina, un decreto, un comunicato. Dentro, invece, il Nominato sente chiaramente che la sua posizione è figlia di una decisione personale.

Non è la struttura che lo ha chiamato: è il Sindaco, è “il sistema”, sono “i nostri”.

Ed è questo che cambia tutto.

Con il passare del tempo, questa sensazione si trasforma in qualcosa di più preciso.

Ogni volta che il CdA si riunisce, ogni volta che si approva un bilancio, ogni volta che la stampa cita il suo nome, il Nominato avverte dietro di sé uno sguardo: quello di chi lo ha seduto lì.

È come camminare in una stanza con un grande specchio alle spalle: ti abitui, ma sai che non sei mai davvero solo.

È qui che nasce il primo vero legame psicologico: la gratitudine che diventa dipendenza.

Il Nominato non pensa più “devo essere all’altezza del ruolo”, ma “devo essere all’altezza di chi mi ha seduto qui”.

Chi viene nominato non riceve un incarico, ma un peso.

Un peso che gli cade sulle spalle come una mano che, mentre ti accarezza, ti stringe leggermente il collo.

Il Nominato sente di essere stato scelto, sente di dover rispondere a chi lo ha scelto.

E tutto questo accade senza che nessuno dica niente, è un debito che nasce spontaneo, come le radici che scendono nella terra senza chiedere permesso.

Il Nominato sorride, ringrazia, ma una parte della sua coscienza sa che quell’ incarico non è suo, ma appartiene a chi glielo ha dato. E così la gratitudine si trasforma in cautela, la cautela in paura, la paura in restituzione.

Una donazione al partito del Sindaco, un “contributo” per sostenere l’ azione politica, una somma che appare libera ma che nasce da un bisogno: non perdere ciò che si è ricevuto.

E’ il momento in cui l’ uomo, senza accorgersene, si lega di sua mano.

Perché donano, allora?

All’inizio “è giusto sostenere il partito che mi rappresenta.” È il modo in cui si tranquillizzano, mettendo tra sé e la verità uno strato di motivazioni ideali, come una vernice sottile.

Ma sotto quella vernice, il legame è più crudo: donano perché sentono di dover restituire.

Donano perché funziona accussì, lo percepiscono, anche se nessuno lo dice.

Donano perché sanno che in quel mondo la fedeltà si misura anche con il conto corrente.

E perché continuano a donare, reiteratamente?

Il primo gesto crea un solco. Una volta che la mano ha preso l’abitudine di “rientrare” al partito, smettere diventa pericoloso.

Il Nominato teme che un’ interruzione della donazione possa essere letta come un raffreddamento, un allontanamento, quasi un tradimento. Così, ad ogni scadenza, ad ogni campagna elettorale, in un angolo recondito della mente si riaccende la lampadina: “E ora? Chi facimm? Posso non dare?”.

La risposta, dentro, è quasi sempre la stessa: “meglio dare, meglio continuare per non far pensare che mi stia staccando.”

La donazione, così, da gesto politico, si trasforma in una polizza di sopravvivenza.

Non è più il segno di una convinzione, ma il prezzo della continuità. E più si ripete, più si trasforma in una catena: ognuno dei due anelli, Sindaco e Nominato, tiene l’altro.

Il Sindaco cosa prova?

All’inizio, forse, una lieve sorpresa: “Talia, ha fatto una donazione, è vicino a noi.”

Poi, con il trascorrere del tempo, la sorpresa si spegne e rimane una sensazione diversa: la sensazione di poter contare su quella persona. Ciò che era un gesto di simpatia politica diventa routine, ciò che era routine diventa prassi, ciò che era prassi diventa struttura. La donazione diventa una conferma silenziosa: “è dei nostri, capiu tuttucosi”.

Gradualmente, nella mente del Sindaco si crea una nuova mappa: da una parte chi è nel ruolo e “dà una mano”, dall’altra chi è nel ruolo e “non si è mai fatto vedere”.

Questa mentalità è la vera precondizione della corruzione: quando si comincia a distinguere non più tra chi è capace e chi non lo è, ma tra chi restituisce e chi no.

Nel frattempo, la Partecipata cambia volto, e da luogo di gestione diventa un altare dove si celebra la fedeltà politica.

Da strumento al servizio del Popolo, diventa serbatoio di donatori. Ogni nomina diventa un investimento, ogni conferma un rinnovo del patto, ogni donazione la prova che il sistema regge, ed è in ciò che si rinnova la paura.

La Legge (..art. 7 l. 19/08/1974 n° 175) vieta contributi ai partiti da parte di chi gestisce funzioni pubbliche, quando ciò rischia di alterare la libertà della politica, e la ratio è semplice: quando l’ offerta nasce dall’ altare sbagliato, corrompe il culto, non lo sostiene.

E dov’è, allora, che la corruzione si annida davvero?

Non nel momento del bonifico. Non nel foglio firmato dal tesoriere. Non nel numero a 6 cifre scritto in un rendiconto.

La corruzione si annida nel pensiero che li precede, sta nel Nominato che sussurra a sè stesso “se smetto di donare, perdo il posto” e nel Sindaco che si lascia persuadere “Iddu ni aiuta, è giusto tenerlo lì”. Il momento psicologico in cui si consuma la corruzione è quello in cui entrambi smettono di domandarsi “cosa è giusto?” e iniziano a chiedersi “cosa conviene?”.

È un attimo, una frazione di secondo, uno spartiacque che divide il prima dal dopo.

Prima il ruolo è un servizio, dopo è una merce da difendere. Prima, la donazione è partecipazione, dopo è la rata di un debito non scritto.

Due atti – la nomina e la donazione – perfettamente leciti presi singolarmente, ma che ncucchiati diventano qualcosa di molto sinistro, perchè la Legge penale (..agli artt. 318 e 319) non punisce gli atti isolati, punisce la corrispondenza.

Quando l’ atto d’ ufficio si riflette nell’ utilità indebitamente ricevuta o promessa, quando le 2 cose si cercano, quando una segue l’ altra come la notte segue il giorno, il reato smette di essere un concetto astratto e acquisisce un corpo, un volto.

La più silenziosa delle corruzioni, che si muove come un’ ombra: il

Sindaco conferma chi dona, chi dona conferma la sua generosità.

Come si manifesta all’esterno?

All’esterno tutto appare normale, quasi banale.

Non ci sono (..di solito) scene teatrali, non ci sono frasi esplicite. Ci sono solo alcune ricorrenze che, viste da lontano, sembrano coincidenze, ma viste da vicino diventano schemi. Ci sono nomine che tornano sempre sulle stesse persone.

Ci sono conferme che non si spiegano con i risultati, ma con il rapporto personale.

Ci sono donazioni che arrivano sempre dagli stessi nomi, con la stessa regolarità con cui arrivano le proroghe o le rielezioni.

La corruzione, qui, si manifesta come un disegno, il disegno di un cerchio chiuso, dove chi entra è protetto finché paga. Dove chi paga è tranquillo finché non rompe i coglioni.

Dove la Partecipata non è più il luogo dei competenti, ma il luogo dei fedeli.

“Dove è il tuo tesoro, lì è anche il tuo cuore” (Mt 6,21): il tesoro non è più nella Città, ma nel circuito che tiene in piedi il sistema. Il cuore non è più sul Bene Comune, ma sulla sicurezza reciproca tra chi governa e chi deve al Governo la propria posizione.

La scena, vista dall’esterno, è spesso sobria: un CdA che lavora, un

Sindaco che saluta, un partito che ringrazia.

Ma sotto quella compostezza, c’è un vincolo: il Nominato che non può più permettersi di essere libero, e il Sindaco che non può più permettersi di essere imparziale.

La corruzione si è consumata quando la libertà è stata barattata con la continuità, quando l’uno non può staccarsi dall’altro senza temere una perdita.

Sebbene entrambi sappiano che quel legame non è più neutro, nessuno dei 2 ha il coraggio di dirlo.

Non c’è mai un annuncio, nuddu mpiccia manifesti“ora siamo entrati nella palude della corruzione”.

C’è solo quel punto interiore in cui smettono di sentirsi responsabili e iniziano a sentirsi legati.

Ed è in quel punto che la corruzione trasferisce la sua residenza. Ora che abbiamo tracciato un quadro psicologico, rimane la domanda che pesa più di tutte: in che misura questo comportamento si sovrappone alla figura delittuosa della corruzione?

La risposta non va cercata nei gesti visibili, ma nella traiettoria che li collega.

La corruzione non è un gesto clamoroso, è la corrispondenza indebita tra un atto pubblico e un’utilità privata o partitica.

La Legge non attende il gesto plateale, né il Sindaco colto col bottino in mano; le basta accorgersi che la mano del Sindaco e quella del Donatore si sono sfiorate nel buio, riconoscendosi come complici prima ancora di toccarsi, perché la corruzione non nasce dal contatto: nasce dal reciproco consenso.

E’ in questo mutuo e silenzioso riconoscimento che il comportamento trova la sua sovrapponibilità alla fattispecie delittuosa.

Sta in ciò che entrambe le parti vogliono, accettano e riconoscono, anche senza parlare.

Il reato di corruzione non nasce quando si riceve il denaro, si firma l’atto o si fa la nomina; nasce quando l’atto d’ufficio assume la forma di una contropartita.

Quando ciò che è pubblico si piega sotto il peso di ciò che è privato.

Quando la scelta amministrativa non è più libera, ma vincolata.

La domanda giuridica è semplice, secca, tagliente: la nomina nella Partecipata è arrivata in vista della donazione, o la donazione è arrivata in vista della nomina?

La nomina è stata la ricompensa promessa, o la donazione è stata l’ acconto versato prima del favore?

Nella corruzione, non serve che ci sia stato un accordo formale o un dialogo esplicito: è sufficiente la consapevolezza reciproca che una cosa chiama l’altra.

Osserviamo i 2 gesti con la lente del diritto penale:

• l’atto d’ufficio, la nomina nel CdA, la conferma, la proroga; • l’utilità indebita, la donazione al partito, il contributo, la “simpatia politica” monetizzata.

Presi singolarmente sono gesti leciti, ma il diritto penale non pesa i gesti isolati, misura la relazione che li unisce.

Se tra i 2 esiste un legame di reciprocità, anche solo percepito, anche solo tacito, anche solo atteso, la fattispecie psicologica della corruzione è compiuta.

È questo il cuore della fattispecie delittuosa: il sinallagma proibito, il do ut des che si nasconde nell’ombra dei gesti leciti.

E in questa vicenda, l’ombra è lunga.

Le donazioni reiterate, costanti, periodiche, quasi calendarizzate, non sono semplici atti di sostegno politico.

Sono segnali.

Sono il modo in cui il nominato conferma di aver compreso la regola non scritta, la prova che il debito si rinnova.

E il Sindaco, dal canto suo, lo sa: sa chi, quando e quanto dona, senza bisogno del famoso uccellino che glielo vada a dire. La fedeltà politica ha sempre un odore riconoscibile.

Il punto di sovrapposizione psicologica tra il comportamento in analisi e la figura delittuosa è: quando la nomina produce attesa e la donazione produce gratitudine?

È un passaggio interiore, un movimento quasi impercettibile, ma è lì che il reato prende forma.

Giuridicamente, questo comportamento non cammina: scivola.

E’ un confine così sottile che basta un respiro storto per precipitare nel vuoto.

L’atto c’è.

L’utilità c’è.

La tempistica si ripete.

La reiterazione disegna un ritmo.

Il legame psicologico, quello più profondo, quello che nessuno confesserà mai, è dda.

A questo punto la domanda non è più un esercizio teorico, ma un’eco che torna sempre uguale: cosa manca perché la corruzione sia completa?

Quasi nulla.

A volte manca solo la voce che lo ammetta.

E quella voce, in queste storie, non arriva mai.

Qui non emergono eroi che parlano: ci sono solo uomini che si abituano a respirare la stessa oscurità.

E finché restano uniti da quel silenzio, la soglia tra lecito e illecito rimane una lama sospesa: non occorre una decisione per attraversarla, basta che l’ anima si pieghi di un grado.

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