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L’ultimo “schiaffo” della Vanoni: se n’è andata all’improvviso la ragazza che scandalizzò la borghesia

Dalla Milano di Strehler agli amori con Paoli, fino all’ultima stagione da regina dell’irriverenza in tv: addio a 91 anni all’artista che ha saputo essere tutto – borghese e ribelle, musa e autrice – attraversando il secolo con la libertà di chi non deve chiedere scusa a nessuno.

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Giuseppe Bevacqua

di GIUSEPPE BEVACQUA

Se n’è andata come probabilmente avrebbe voluto: all’improvviso, nella sua Milano, senza chiedere permesso e senza lunghe anticamere, a novantuno anni suonati da poco. Ornella Vanoni ha chiuso il sipario sulla sua esistenza terrena, lasciandoci un po’ più soli e decisamente più annoiati.

Non era una “vecchia signora” della musica italiana, definizione che l’avrebbe fatta inorridire con quella sua smorfia inconfondibile. Era un mito, sì, ma di quelli vivi, vegeti e soprattutto scomodi. Chi l’ha vista in televisione fino all’altro ieri, nel salotto di Fazio a Che tempo che fa, sa di cosa parlo. Lì, tra un aneddoto e una risata, Ornella faceva quello che a noi, ingabbiati nel recinto del politicamente corretto, non è più concesso: diceva la verità. Sfacciata, libera, talvolta brutale, ma sempre dannatamente elegante. Se ne infischiava del galateo televisivo con la naturalezza di chi ha visto tutto e non deve più dimostrare niente a nessuno.

La sua vita è stata un romanzo che ha attraversato il Novecento italiano, sbeffeggiandone le convenzioni. Figlia della buona borghesia milanese, quella che portava i guanti bianchi e parlava sottovoce, a vent’anni decise di diventare la “ragazza della Mala”. Fu Giorgio Strehler, quel genio dispotico del Piccolo, a intuire che dietro quella faccia d’angelo e quella voce nasale c’era il fuoco. Le cucì addosso le canzoni della malavita, Ma mi e Le mantellate, e lei le cantò con una credibilità tale da scandalizzare i benpensanti da cui proveniva. Era la Milano che insegnava cultura al mondo, e lei ne era il gioiello più prezioso e ribelle.

Poi arrivò Gino Paoli, e con lui la Scuola Genovese. Senza fine, come il loro amore, fatto di incontri e scontri, di musica e passione. Paoli le diede le parole, lei ci mise l’anima. Ma Ornella non si fermò lì. Non fu mai solo la musa di qualcuno. Ebbe l’intelligenza, rara, di capire quando cambiare pelle. Capì il Brasile di Vinicius de Moraes e Toquinho prima degli altri, portando in Italia quella saudade che mescolava allegria e malinconia, in un album che resta un capolavoro di intuizione grazie anche a Sergio Bardotti.

Ha cantato tutto e con tutti. Da Lucio Dalla a De André, fino al jazz raffinato di Gerry Mulligan e Gil Evans in quell’America che la accolse come una pari. Non si è mai accontentata di essere un monumento polveroso. Per i suoi novant’anni si era regalata un disco nuovo, Diverse, duettando con le ragazze di oggi, Elodie e Ditonellapiaga, non per scimmiottare la giovinezza, ma per insegnare loro come si sta al mondo. E aveva scritto un diario, Vincente o perdente, che non era un’autobiografia, ma un bilancio sentimentale senza sconti.

La sua grandezza stava tutta lì: nell’essere riuscita a invecchiare senza diventare vecchia. Ha mantenuto fino all’ultimo respiro quella vitalità straordinaria e quella consapevolezza superiore che appartiene solo a chi ha vissuto davvero, sbagliando, amando e pagando di persona.

Se ne va l’ultima diva che poteva permettersi di non esserlo, l’unica che poteva cantare L’appuntamento e farci credere, ogni volta, che la tristezza fosse un sentimento di lusso. Milano oggi è un po’ più grigia, e non è colpa della nebbia.

vanoni