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Il Grande Freddo: Calenda evoca Mori e De Luca agita lo scudo di cartone. Cronache di un’isola allo sbando

- 10/11/2025
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De Luca, la replica non richiesta e l’ansia da riflettore: storia triste di un consenso in affanno.

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di GIUSEPPE BEVACQUA

Che la Sicilia fosse malata, non serviva certo la diagnosi di Carlo Calenda. Ma che la cura proposta – il commissariamento – arrivasse con la violenza verbale di chi invoca il “Prefetto Mori” per sanità, acqua e rifiuti, ha scoperchiato il nervo. Un nervo non solo politico, ma epidermico.

L’affondo del leader di Azione non è un capriccio da salotto romano. Poggia su un tavolo operatorio dove il paziente, l’Isola, è divorato da un’infezione che le cronache giudiziarie chiamano “corruzione sistemica”. Gli appalti truccati nella sanità, le inchieste che risalgono fino a riesumare nomi come Cuffaro, i milioni di euro che danzano su gare pilotate, le vicende giudiziarie che investono il presidente dell’Ars Galvagno e l’assessore al Turismo e spettacolo Elvira Amata: questo è il bollettino medico.

Di fronte a Calenda che, dati alla mano, parla di “Paese non occidentale” e lancia una raccolta firme per esautorare la politica regionale dalla gestione dei fondi vitali, la reazione era scontata. Ci si aspettava il lamento del governatore Schifani, ci si aspettava la difesa d’ufficio della maggioranza.

Quello che stona, che suona come un allarme antincendio in un sottomarino, è l’invettiva partita da chi, formalmente, non era nemmeno al tavolo dei commensali.

Il protagonismo non richiesto

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Mentre Calenda puntava il dito contro il “sistema” Schifani, da Messina si è alzato il solito scudo di cartone. Cateno De Luca, non nominato, non interpellato, si è sentito in dovere di sparare la sua replica indignata (o meglio, ha fatto sparare i suoi, come il coordinatore Lo Giudice, che è lo stesso). L’offesa non è alla politica, ma al “popolo siciliano”, infangato da chi viene da fuori. Un classico.

Ma perché De Luca si lancia in questa difesa non richiesta, lui che è ondivago tra la sindrome del “padre nobile” e il rimpianto dell’opposizione a Schifani?

La risposta non è politica, è scenica. C’è un vuoto pneumatico di consenso che neanche i toni da sceriffo riescono più a colmare. La parabola dell’uomo forte, dell’amministratore che “risolve” e che fa lo show sbattendo i pugni, sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva. Il vento è calato e la barca arranca.

De Luca ha un bisogno disperato, quasi fisico, di visibilità. Ha bisogno di un nemico, di una polemica, di un palco. Se il nemico non lo considera – e Calenda, parlando di commissariamento, si rivolge al Governo Meloni, non certo al leader di Sud Chiama Nord – allora bisogna inventarselo. Bisogna infilarsi nel discorso, alzare la voce più degli altri, gridare “all’invasore” per ricordare a tutti che si esiste ancora.

È la sindrome dell’attore che non accetta la fine del primo atto.

Così, tutto diventa vetrina. Ogni occasione è buona per montare il pulpito. E se la politica nazionale non offre sponde, ci si accontenta del locale. Anche una premiazione di arti marziali a Messina (accanto a Basile peraltro in abiti da “gemelli diversi”), tra un inchino e una cintura colorata, diventa una passerella ingiustificabile, un’occasione per rubare l’inquadratura, per ricordare che il “Sindaco d’Italia” (o di Sicilia, o di quel che resta) è ancora lì.

Mentre Calenda propone la chirurgia d’urto per un sistema al collasso – una proposta sulla cui serietà, viste le inchieste, è lecito almeno riflettere – il dibattito siciliano si riduce a chi si sente “offeso”, o colpito nel suo programma sperato e in divenire, e alla ricerca disperatamente di un palcoscenico e di una telecamera.

Carlo Calenda