

C’è un’aria pesante, a Roma, e non è solo per il consueto tran-tran della politica. Stavolta lo spiffero arriva dalla Sicilia, e porta con sé l’odore di una bufera che da Siracusa rischia di estendersi all’intera isola. La storiaccia di provincia, quella della “colletta” del deputato Luca Cannata, non è più solo una grana locale da sbrigare in famiglia. È diventata un sasso gettato nello stagno, le cui onde concentriche minacciano di scuotere le fondamenta di Fratelli d’Italia ben oltre lo Stretto.
La vicenda, ormai nota, è quella del fedelissimo uomo dei conti piazzato alla vicepresidenza della commissione Bilancio, accusato di aver messo in piedi un sistema di finanziamento poco trasparente, con gabelle mensili versate in contanti dai suoi ex assessori ai tempi del municipio di Avola. Un’abitudine che lui chiama “contributo volontario”, ma che un esposto al veleno del quale era stata informata a febbraio di quest’anno Arianna Meloni descrive come un metodo “illegittimo e inopportuno”. Quindi già a febbraio di quest’anno la sorella della premier Giorgia, sapeva. A mettere nero su bianco il tutto è un avvocato, Giuseppe Napoli, che per cinque mesi ha retto la presidenza provinciale del partito prima di sbattere la porta. Lo ha fatto, scrive, per non essere più considerato un “sodale” di Cannata, descritto come un personaggio spietato, maestro nell’arte del “dividi et impera”, un tattico spregiudicato che usa “raggiri e artifizi” per guadagnarsi la fiducia altrui. Parole che pesano come macigni. E come in ogni dramma siciliano che si rispetti, spunta anche la figura del mentore, l’ex potente di turno: Giambattista Bufardeci, detto “Titti”, già vicepresidente della Regione, a cui il suo allievo Cannata, da sindaco, non aveva lesinato incarichi e consulenze ben retribuite.
Ma il vero timore, che ora serpeggia nei corridoi romani, è che il “sistema Cannata” non sia un’anomalia, ma un prototipo. La domanda che gli inquirenti, e soprattutto gli avversari politici, si pongono è tanto semplice quanto devastante: quante altre province siciliane hanno adottato un metodo simile per far quadrare i conti delle sedi e delle campagne elettorali? L’indagine della Procura di Siracusa potrebbe essere solo il prologo, il primo atto di un dramma che svela una gestione del potere e del denaro radicata e diffusa. Se i magistrati decidessero di allargare il loro sguardo, di cercare altri feudi e altre collette, per il partito della premier si aprirebbe una voragine.
E qui la faccenda smette di essere puramente giudiziaria per diventare squisitamente politica. Un’inchiesta a macchia d’olio in Sicilia sarebbe più di un imbarazzo: sarebbe un’ipoteca sul futuro. Proprio mentre si tessono le tele di nuove e delicate alleanze, mentre si cerca di accreditare un’immagine di rigore e legalità, uno scandalo di questo tipo sarebbe un fardello insostenibile. Chi vorrebbe legare il proprio destino a un partito azzoppato dal sospetto di un sistema di finanziamento opaco? Ogni stretta di mano, ogni patto siglato, verrebbe macchiato dall’ombra di questa storia. E così, quella che era iniziata come una lite tra fratelli di coltelli a Siracusa, rischia di scombinare i piani, di far saltare i tavoli e potrebbe lasciare Giorgia Meloni molto più sola di quanto immagini.
