

Adesso. Adesso si indignano tutti. Esplode il bubbone dei siti-cloaca, delle chat del fango dove le donne vengono spogliate, non solo metaforicamente, della loro dignità, e l’Italia perbene si straccia le vesti. Ed è giusto, sacrosanto. Ma dove era tutta questa bella gente, dove erano gli editorialisti dall’etica immacolata, i paladini dei diritti digitali, quando a Messina, ogni giorno, una donna, una senatrice della Repubblica, veniva sistematicamente crocifissa sull’altare del più becero sessismo?
Parliamo di Dafne Musolino che per un lungo, vergognoso periodo, è stata oggetto di una delle più violente e volgari campagne d’odio social e non solo che la politica locale ricordi. Non era critica politica, no. Era un’aggressione quotidiana, personale, fondata sul suo essere donna. “Daffine”, la chiamavano, storpiandone il nome, è la citazione “meno peggio” di in un rigurgito di subcultura da osteria, con insulti che miravano a colpirla nella sua identità, a delegittimarla attraverso il sarcasmo più greve.
E la stampa? Ah, la stampa. Invece di erigere un muro, di denunciare lo schifo, spesso ci sguazzava. Ricordiamo certi titoli, certi articoli che, con una malcelata complicità, cavalcavano l’onda degli insulti. Non si limitavano a riportare la notizia, no. La amplificavano. Riprendevano integralmente le offese, le sbattevano in prima pagina, trasformando il fango in notizia, legittimando di fatto gli aggressori. Diventavano una cassa di risonanza, una vergognosa e deleteria eco che normalizzava l’insulto, rendendolo quasi un’opinione politica come un’altra. Ogni articolo che riportava “Daffine” senza virgolette critiche, ogni pezzo che indugiava sulla descrizione degli attacchi più vili, non faceva informazione: partecipava al linciaggio. Dov’era allora l’ondata di solidarietà nazionale? Dove erano le prime pagine indignate? Lo sdegno, a quanto pare, era merce rara, un lusso che non ci si poteva permettere per una senatrice “scomoda”, non allineata, forse non abbastanza “vittima” secondo i canoni mediatici del momento. Il suo caso era un problema locale, un’esagerazione folcloristica, non l’allarmante sintomo di una malattia sociale che oggi, improvvisamente, scopriamo con orrore.
L’ipocrisia è assordante. Oggi ci si scandalizza per commenti anonimi su un sito. Ieri si tollerava, e anzi si amplificava, l’insulto quotidiano rivolto a una rappresentante delle istituzioni, servito caldo sui quotidiani. La verità è che l’indignazione non può e non deve essere selettiva. Non può funzionare a comando, a seconda della convenienza politica o della popolarità della vittima o secondo l’allineamento al volere del “padrone” politico di turno. La tutela della dignità della donna non è un menù à la carte. Vale per la ragazza la cui foto viene rubata e umiliata online e vale per la senatrice della Repubblica attaccata con epiteti che ne negano il ruolo e la persona. Sempre. Senza se e senza ma.
Quindi, ben venga lo sdegno di oggi. Ma che sia uno sdegno consapevole, memore. Che serva non solo a punire i colpevoli di oggi, ma anche a fare un profondo esame di coscienza sulle complicità, sui silenzi e sulle “distrazioni” di ieri. Altrimenti, è solo l’ennesima, ipocrita, fiera della vanità. E di quella, francamente, ne abbiamo già abbastanza.

