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Lo Stretto dei Dubbi: oltre il corteo, le fratture irrisolte del Ponte

- 09/08/2025
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Le parole di Beniamino Fazio, direttore della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) di Catanzaro, sono inequivocabili e agghiaccianti: “È possibile costruire il Ponte sullo Stretto di Messina senza che la ‘Ndrangheta s’infiltri nei lavori? ‘Ve lo potete levare dalla mente’”.

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La Piazza e il Simbolo

di Giuseppe Bevacqua

Ancora una volta, le strade di Messina sono diventate il palcoscenico di un dissenso che pulsa al ritmo della storia della città. Il corteo del 9 agosto 2025, l’ennesimo del movimento No Ponte, traccia un percorso denso di significato: da Piazza Cairoli, cuore commerciale e pulsante della vita quotidiana, fino a Piazza Duomo, centro spirituale e storico. Un tragitto che non è solo topografico, ma metaforico: un viaggio dalle preoccupazioni materiali all’anima profonda di una comunità che si interroga sul proprio futuro. A guidare la marcia, uno slogan che è molto più di un rifiuto: “Vogliamo l’acqua, non la guerra”. Questa frase, scandita da una coalizione eterogenea che unisce comitati di cittadini, associazioni ambientaliste, sindacati di base e gruppi pacifisti come Assopace Palestina , dischiude la vera natura della protesta. Non è un “no” aprioristico al progresso, ma una complessa e sofferta affermazione di priorità, che contrappone un bisogno primario e vitale come l’acqua a un’opera percepita come astratta, dispendiosa e persino “bellica”.

Il Ponte sullo Stretto ha trasceso la sua natura di progetto ingegneristico per diventare un simbolo nazionale, il punto focale di un conflitto irrisolto sull’identità e sul futuro dell’Italia. Il dibattito va oltre la campata in acciaio per mettere in discussione il significato stesso di “progresso”, l’allocazione di risorse pubbliche sempre più scarse e la natura del rapporto tra lo Stato e i suoi territori. Le manifestazioni ricorrenti sono le scosse di assestamento di queste profonde fratture nazionali. La contrapposizione non è tra modernità e arretratezza, ma tra due paradigmi di sviluppo diametralmente opposti. Da un lato, un modello centralizzato e verticistico, che privilegia la grandiosità simbolica delle “grandi opere” come affermazione di potenza. Dall’altro, una visione che nasce dal basso e che misura il progresso non sulla lunghezza di un viadotto, ma sulla funzionalità di un acquedotto, sulla sicurezza di una scuola, sull’efficienza di un treno regionale. La battaglia contro il Ponte è, in essenza, una battaglia per la definizione stessa di bene comune.

L’acqua e la crisi idrica endemica: Il Paradosso delle Priorità

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Il fondamento della protesta risiede in una realtà materiale, tangibile e quotidiana: il divario stridente tra il costo esorbitante del Ponte e lo stato di cronico abbandono delle infrastrutture primarie del territorio. La crisi idrica in Sicilia, dove in alcune aree l’acqua viene razionata e arriva “una volta a settimana” , al punto da richiedere l’intervento di navi cisterna della Marina Militare per garantire l’approvvigionamento , offre il contrasto più drammatico. Questa emergenza strutturale viene affrontata con uno stanziamento di 20 milioni di euro, una cifra irrisoria se paragonata non solo ai 13,5 miliardi di euro di denaro pubblico destinati al Ponte, ma anche al fabbisogno idrico dell’opera stessa. Si stima che la sua costruzione potrebbe sottrarre fino al 20% del fabbisogno idrico giornaliero di Messina e che uno solo dei 17 cantieri previsti necessiti di 39 milioni di metri cubi d’acqua.

Questo paradosso si estende a macchia d’olio su tutti i servizi essenziali. Mentre si progetta un collegamento avveniristico, la rete ferroviaria siciliana rimane in gran parte a binario unico, obsoleta e incapace di raggiungere vaste aree dell’isola. Le strade e i porti, fondamentali per l’economia locale e per contrastare lo spopolamento, attendono da decenni ammodernamenti che non arrivano. La disconnessione fiscale tra la grande opera e i bisogni primari è la prova più evidente di quelle che i critici definiscono “priorità stravolte”. Il Ponte, in questa prospettiva, non è una soluzione, ma l’emblema di uno Stato che investe in simboli di potenza mentre le fondamenta della vita civile si sgretolano.

Un territorio ferito: espropri, storia e la critica alle “Grandi Opere”

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L’opposizione al Ponte non è un fenomeno recente, ma una resistenza radicata, consapevole e con una memoria storica profonda. L’impatto sociale diretto, rappresentato dalla minaccia degli espropri, genera un profondo “disagio sociale e psicologico“. Migliaia di residenti si sentono trattati come “danni collaterali” , ostacoli da rimuovere in nome di un’infrastruttura la cui utilità percepiscono come lontana e la cui realizzazione rimane incerta.

Questa ferita si innesta su una lotta che dura da oltre vent’anni. Il movimento No Ponte affonda le sue radici nei primi anni 2000, ai tempi della “legge obiettivo” del governo Berlusconi e del ministro Lunardi, quando il progetto sembrò per la prima volta concretizzarsi. Da allora, la mobilitazione è cresciuta esponenzialmente, passando dalle centinaia di manifestanti dei primi campeggi alle decine di migliaia delle manifestazioni più recenti, dimostrando una resilienza e una capacità organizzativa notevoli. La solidarietà esplicita con il movimento No TAV della Val di Susa, i cui rappresentanti hanno più volte partecipato ai cortei a Messina, è un elemento chiave. Questo legame trasforma la battaglia dello Stretto da questione locale a capitolo di una più ampia narrazione nazionale di resistenza al modello delle “grandi opere”. Un modello criticato perché imposto dall’alto, privo di un reale processo partecipativo e accusato di rispondere più agli interessi dei grandi costruttori che alle necessità delle comunità.

In questo contesto, il movimento No Ponte si è evoluto da comitato di opposizione a un vero e proprio laboratorio politico che sperimenta forme alternative di governance. La sua stessa struttura, una rete federativa di decine di associazioni diverse , incarna un modello decisionale orizzontale e inclusivo. La sua azione non si limita alla protesta, ma si estende alla proposta di alternative concrete: investimenti nel trasporto multimodale, nello sviluppo sostenibile, nella messa in sicurezza del territorio e nel potenziamento dei servizi essenziali. Lo slogan “Il futuro dello Stretto… non lo decidono le multinazionali, i generali o Salvini, ma le comunità che lo abitano” è una vera e propria dichiarazione di sovranità territoriale. È la rivendicazione del diritto di una comunità a decidere del proprio destino, sfidando la legittimità di un potere centrale percepito come distante e sordo. In questo senso, il movimento non si limita a dire “no” a un ponte, ma costruisce un “sì” a un diverso modo di intendere la politica e lo sviluppo.

un Sogno su una Faglia: Le Incertezze Tecniche

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Al di là delle ragioni sociali e politiche, il progetto del Ponte è gravato da un fardello di incertezze tecniche e rischi monumentali. L’opera dovrebbe sorgere in una delle aree a più alto rischio sismico del Mediterraneo, teatro nel 1908 di un terremoto catastrofico di magnitudo 7.1. Sebbene i progettisti assicurino che la struttura sia concepita per resistere a un evento di tale portata, mantenendo la piena funzionalità, la comunità scientifica è tutt’altro che unanime. Il dibattito sulla precisa localizzazione e attività delle faglie sismogenetiche nello Stretto è ancora aperto, e la stessa relazione di progetto identifica il sisma del 1908 come il “terremoto di riferimento”. L’agghiacciante monito del geologo Mario Tozzi, secondo cui in caso di un sisma devastante il ponte potrebbe anche rimanere in piedi, ma per “unire due cimiteri”, riassume la drammaticità del rischio.

Le perplessità non sono solo esterne. Lo stesso Comitato Scientifico nominato dal governo, pur approvando in linea di principio il progetto, ha sollevato ben 68 punti di criticità, formulando altrettante richieste di approfondimenti e aggiornamenti da integrare nel progetto esecutivo. Non si tratta di dettagli marginali, ma di questioni fondamentali che includono la necessità di nuovi e aggiornati test aerodinamici in galleria del vento e di ricalcolare l’azione sismica sulla base dei dati raccolti negli ultimi vent’anni. A queste si aggiungono le critiche di esperti come Marco Ponti, che mettono in dubbio la fattibilità stessa di far transitare una linea ferroviaria su un ponte sospeso a campata unica di 3,3 km, una sfida ingegneristica senza precedenti. Il rischio, avverte Ponti, è che l’irrigidimento necessario per il passaggio dei treni renda l’impalcato instabile o che il servizio ferroviario debba essere interrotto per lunghi periodi a causa del vento, vanificando uno dei principali scopi dell’opera.

Il Buco Nero dei Conti: Costi, Finanziamenti e Benefici Contestati

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L’architettura finanziaria del progetto è altrettanto precaria. Il costo ufficiale di 13,5 miliardi di euro deve essere letto alla luce di una storia di continue lievitazioni (il costo stimato nel 2001 era inferiore ai 5 miliardi ) e degli avvertimenti degli esperti, secondo cui per un’opera di questa complessità e unicità i sorpassi di spesa potrebbero facilmente raggiungere il 100%.

Questa enorme scommessa finanziaria è quasi interamente a carico del contribuente. L’analisi dei documenti ufficiali rivela che i fondi provengono dal bilancio dello Stato, dal Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (FSC) e dalle Regioni Sicilia e Calabria, senza alcun apporto significativo di capitale privato. L’unico contributo europeo finora registrato ammonta a circa 25 milioni di euro per studi di progettazione, una goccia nel mare.

Questa struttura finanziaria trasforma il Ponte in un azzardo colossale per le casse pubbliche. Sul fronte dei benefici, la narrazione è spaccata. Da un lato, la società Stretto di Messina S.p.A. presenta un’Analisi Costi-Benefici con un Valore Attuale Netto (VANE) positivo per 3,9 miliardi di euro. Dall’altro, economisti ed esperti di trasporti come Marco Brambilla e Marco Ponti contestano radicalmente questi calcoli, sostenendo che il progetto abbia un Valore Netto Presente (VNP) negativo, si basi su previsioni di traffico irrealistiche e che i suoi benefici siano “miraggi”. La tesi che il Ponte rivoluzionerà il trasporto merci, ad esempio, si scontra con la previsione che la maggior parte delle merci continuerà a viaggiare via mare, un’opzione più economica e funzionale.

In questo quadro di incertezza, la scelta del governo di consentire l’approvazione e l’avvio dei lavori “per fasi costruttive” appare non come una semplice modalità amministrativa, ma come una precisa strategia politica. Questa procedura permette di aprire i cantieri e spendere ingenti somme di denaro pubblico per opere preliminari, anche in assenza di una copertura finanziaria completa o di una soluzione a tutte le criticità tecniche. Una volta avviata la macchina e creati dei costi sommersi per miliardi di euro, diventerà politicamente quasi impossibile per qualsiasi governo futuro fermare il progetto, indipendentemente dai problemi che emergeranno. Si creerebbe così un meccanismo di intrappolamento finanziario, dove lo Stato sarebbe costretto a coprire qualsiasi extracosto per evitare il disastro politico e d’immagine di un’opera monumentale lasciata a metà, come “un utilissimo pilastro nel bel mezzo di una riserva naturale“.

Il Fronte Legale e Ambientale: Rotta di Collisione con l’Europa

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Il percorso del Ponte è già disseminato di ostacoli legali che ne minacciano la tempistica e la stessa legittimità. Una coalizione di importanti organizzazioni non governative ambientaliste, tra cui Legambiente, WWF, Greenpeace e Lipu, ha già avviato azioni legali sia presso il Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) del Lazio sia presso la Commissione Europea. L’accusa è netta: il progetto viola palesemente le normative ambientali dell’Unione Europea, in particolare le Direttive “Habitat” e “Uccelli“, che tutelano l’ecosistema unico dello Stretto, un’area di straordinaria importanza per la biodiversità e una delle principali rotte migratorie per l’avifauna in Europa.

Il cuore della contestazione legale risiede in un processo di approvazione ambientale che le associazioni definiscono viziato. La stessa commissione ministeriale per la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), pur dando parere favorevole, ha dovuto condizionarlo all’adempimento di ben 62 prescrizioni, riconoscendo di fatto l’esistenza di impatti significativi e non risolti. Le ONG sostengono che non sussistono le condizioni previste dalla legge europea per autorizzare un’opera in deroga (ovvero: assenza di alternative valide, esistenza di motivi imperativi di rilevante interesse pubblico e adozione di adeguate misure di compensazione). La giustificazione del governo, che invoca un interesse strategico-militare per l’opera, viene definita “paradossale” e vista come un tentativo di aggirare il controllo di Bruxelles. Le conseguenze di queste battaglie legali potrebbero essere dirompenti: una sentenza sfavorevole del TAR potrebbe bloccare l’iter, mentre l’apertura di una procedura d’infrazione da parte dell’UE comporterebbe non solo pesanti sanzioni economiche per l’Italia, ma anche un colpo fatale alla credibilità internazionale del progetto.

L’Ombra della ‘Ndrangheta: Un’Infiltrazione Preannunciata

Il rischio più allarmante, tuttavia, non è una possibilità, ma una quasi certezza certificata ai massimi livelli istituzionali: l’infiltrazione della criminalità organizzata.

Le parole di Beniamino Fazio, direttore della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) di Catanzaro, sono inequivocabili e agghiaccianti: “È possibile costruire il Ponte sullo Stretto di Messina senza che la ‘Ndrangheta s’infiltri nei lavori? ‘Ve lo potete levare dalla mente’”.

L’analisi della DIA chiarisce che la minaccia va ben oltre la semplice estorsione. Si parla di un’infiltrazione a “livelli superiori” , un sistema pervasivo che include il controllo delle catene di fornitura (in particolare il calcestruzzo), la creazione di imprese di facciata per aggiudicarsi subappalti e l’utilizzo di logge massoniche come camera di compensazione per tessere rapporti collusivi con “istituzioni deviate, con politici e imprenditori“. La relazione della DIA descrive l’influenza della ‘Ndrangheta a Villa San Giovanni come “pesantissima” e considera Messina una sua “diramazione”. Il governo ha promesso protocolli di legalità, ma l’allarme della DIA suggerisce che il pericolo è di natura sistemica e difficilmente arginabile con misure ordinarie.

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Tirando le fila di questa complessa vicenda, emerge un quadro a tinte fosche. L’opposizione sociale, radicata e motivata, non può essere liquidata come un fenomeno localistico. I monumentali rischi tecnici ed economici, evidenziati da esperti e dagli stessi organi di controllo governativi, trasformano il progetto in una scommessa ad altissimo rischio per le finanze pubbliche. Le incombenti battaglie legali sul fronte ambientale e la certezza, preannunciata dalla Direzione Investigativa Antimafia, di una profonda infiltrazione criminale, completano un quadro di vulnerabilità sistemica.

Il Ponte sullo Stretto, pertanto, si rivela non tanto come un’infrastruttura, quanto come un test di tornasole per la nazione. Costringe l’Italia a confrontarsi con i suoi demoni più persistenti: la voragine tra le istituzioni e i cittadini, la dipendenza dal debito pubblico per opere dal forte valore simbolico ma dalla dubbia utilità, la sfida endemica della criminalità organizzata e la difficoltà cronica nel definire un modello di sviluppo che sia realmente sostenibile e giusto.

La domanda finale, che resta sospesa sullo Stretto insieme al progetto, è tanto semplice quanto ineludibile: in un Paese dove i cittadini devono scendere in piazza per chiedere l’acqua potabile, dove la terra trema e dove gli stessi investigatori dello Stato prevedono la colonizzazione criminale del più grande cantiere pubblico, costruire questo ponte è un atto di coraggio e visione o una spericolata fuga dalle urgenze improcrastinabili di un Paese che ha un disperato bisogno di riparare le proprie fondamenta?

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