

Una doppia tragedia che lascia dietro di sé un vuoto di giustizia e un paradosso morale e legale. Stefano Argentino, il 27enne reo confesso dell’omicidio della collega universitaria Sara Campanella, è stato trovato senza vita all’alba del 6 agosto 2025, impiccato nella sua cella del carcere di Gazzi a Messina. Con la sua morte, non solo si chiude per sempre la via giudiziaria per accertare le sue responsabilità, ma si apre un cortocircuito etico: la sua famiglia potrebbe essere risarcita dallo Stato per omessa vigilanza, mentre quella della sua vittima non avrà diritto a nulla, se non a un fondo pubblico.
Un Suicidio Annunciato tra Carenze e Accuse
Il rischio che Stefano Argentino potesse tentare il suicidio era noto fin dal suo arresto. Dopo aver confessato di aver sgozzato in pieno centro la 22enne, che da mesi perseguitava e che quella sera stessa aveva scritto alle amiche “il malato mi segue”, era stato posto in regime di “grande sorveglianza”. Un protocollo che prevede controllo a vista e una cella singola, priva di oggetti pericolosi.
Tuttavia, due settimane fa, in seguito a colloqui con gli psicologi che ne avevano attestato una presunta stabilità, la direzione del carcere ha revocato le misure speciali, riassegnandolo a una cella comune. Un allentamento della vigilanza che si è rivelato fatale.
“È il triste, drammatico, epilogo di una storia di cui si supponeva già il finale. L’unica responsabilità è da attribuire allo Stato”, ha dichiarato l’avvocato Giuseppe Cultrera, legale di Argentino, che aveva chiesto invano una perizia psichiatrica per il suo assistito. Sullo sfondo, la denuncia del sindacato di polizia penitenziaria Spp: in Italia mancano migliaia di agenti e gestire l’ordinario è già un’impresa, rendendo la sorveglianza speciale un’eccezione difficile da sostenere.
Processo Estinto e il Paradosso del Risarcimento

Il processo per l’omicidio di Sara Campanella, che sarebbe dovuto iniziare il 10 settembre, non si terrà mai. Con la morte dell’imputato (mors rei), il reato si estingue e il procedimento penale si chiude, escludendo di fatto le parti civili, ovvero la famiglia della vittima.
Qui si innesca il paradosso. Come spiega a ADNKronos l’avvocato Guido Stampanoni Bassi, direttore di “Giurisprudenza Penale”, la famiglia del detenuto suicida può ora intentare una causa civile contro lo Stato. L’articolo 2 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, infatti, impone allo Stato di proteggere la vita di chi è sotto la sua custodia. La mancata prevenzione di un suicidio annunciato configura una chiara responsabilità dell’amministrazione.
Un precedente esiste ed è drammaticamente simile: “Il caso ricorda la sentenza ‘Citraro e Molino c. Italia'”, spiega Stampanoni Bassi. Antonio Citraro si impiccò nello stesso carcere di Gazzi nel 2001 e, dopo 19 anni, la Corte di Strasburgo condannò l’Italia a risarcire i genitori con 32.900 euro per non aver impedito il gesto, pur conoscendone il rischio.
Giustizia Simbolica per la Famiglia di Sara
E la famiglia di Sara Campanella? Le sue opzioni sono quasi nulle. In teoria, potrebbe intentare una causa civile contro i familiari di Argentino, ma solo se questi accettassero l’eredità del defunto, un’ipotesi assai remota.
L’unica strada concreta resta il fondo pubblico per le vittime di reati intenzionali violenti. “Si tratta di un indennizzo da 50mila euro”, precisa l’avvocato, “una cifra simbolica rispetto al valore di una vita umana”. Un importo che impallidisce di fronte ai risarcimenti milionari stabiliti in altri noti casi di cronaca, come quelli per gli omicidi di Chiara Poggi, Giulia Cecchettin o Fabiana Luzzi.
L’epilogo è amaro: la famiglia di un omicida reo confesso potrebbe ricevere un risarcimento a carico dei contribuenti per le mancanze dello Stato, mentre quella della sua vittima dovrà accontentarsi di una somma simbolica, senza mai vedere concluso il processo per cui chiedeva giustizia.

