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L’alba che cancellò il mondo. Messina 1908: cronaca di una fine e di un eterno inizio. Quelle baracche che nulla hanno a che vedere

- 27/12/2025
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Sullo Stretto, trentasette secondi per chiudere un’era. Dalla scienza di Omori all’eroismo dei marinai russi. Quelle baracche figlie dell’emergenza abitativa che non c’entrano nulla con il 1908

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La città dormiva il sonno sazio delle feste. Era la notte tra il 27 e il 28 dicembre 1908 e Messina, adagiata sulla falce del suo porto, si sentiva una piccola capitale mediterranea. Poche ore prima, il Teatro Vittorio Emanuele aveva vibrato per l’Aida di Verdi; i lampioni a gas disegnavano la sagoma della Palazzata, orgoglio borghese e mercantile. Nessuno poteva immaginare che quella sarebbe stata l’ultima notte della Belle Époque sullo Stretto.

Alle 5:20 del mattino, il tempo si è fermato. O meglio, è collassato.

In trentasette interminabili secondi, la faglia cieca sotto le acque liberò l’energia di secoli. Non fu solo un terremoto, fu la cancellazione di un mondo. Quello che seguì non fu solo il crollo di pietre, ma il collasso di una civiltà urbana, un evento spartiacque che ha mobilitato imperi e riscritto la sismologia.

Per capire l’abisso, bisogna guardare i numeri. Strumenti moderni classificano l’evento con una magnitudo momento (Mw 7.1). L’epicentro in mare, una profondità superficiale tra gli 8 e i 10 chilometri: una combinazione letale. L’energia non si è dispersa, si è concentrata come un maglio.

Ma la terra fu solo l’inizio. Il silenzio spettrale post-sisma fu rotto dal ruggito del mare. Lo tsunami, con onde fino a 12 metri a Pellaro e Lazzaro, completò l’opera. A Messina l’acqua cancellò il porto e si portò via i detriti e chi cercava salvezza verso la riva.

Le stime delle vittime oscillano tra 80.000 e 120.000. Una contabilità dell’orrore impossibile da chiudere con certezza: registri bruciati, intere famiglie spazzate via, un’amministrazione decapitata. Luigi Barzini, firma storica di via Solferino, arrivò sul posto e scrisse: “Quanti morti sono là sotto? Settanta, ottanta, centomila. Pensate!”.

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Mentre l’Italia piangeva, la scienza osservava. Fusakichi Omori, inviato dall’Imperatore del Giappone, camminava tra le rovine con l’occhio clinico di chi conosce i demoni della terra. Il suo verdetto fu un atto d’accusa: “Le vittime non sono state uccise dal terremoto, ma dai muri”. Omori vide pietre irregolari, malte povere, strutture pesanti. Vide, in sintesi, una vulnerabilità costruita dall’uomo. Accanto a lui, il geografo italiano Mario Baratta mappava il disastro con precisione, ponendo le basi per quella che sarebbe diventata la normativa antisismica moderna, nata con il Regio Decreto del 1909.

In un mondo che marciava verso la Grande Guerra, Messina divenne teatro di una solidarietà militare senza precedenti. I primi ad arrivare furono i russi. La squadra navale dell’Ammiraglio Litvinov, che si trovava ad Augusta, non attese ordini dallo Zar. Le cronache raccontano di marinai che scavarono a mani nude, di ufficiali che divennero barellieri. Lo Zar Nicola II telegrafò poi: “In sei giorni avete fatto per l’Italia più di quanto la mia diplomazia abbia fatto in anni”. Poi arrivarono gli inglesi della Royal Navy, e con loro i “boy sailors”, ragazzi gettati nell’inferno che divennero uomini in poche ore tra polvere e sangue.

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Chi sopravvisse cercò la fuga. L’episodio del piroscafo SS Florida racchiude il destino beffardo di quei giorni. Carico di 850 profughi diretti a New York, il piroscafo entrò in collisione nell’Atlantico con il transatlantico Republic. Nebbia, panico, spari in aria del capitano Ruspini per tenere l’ordine. Eppure, grazie al telegrafo Marconi, arrivarono i soccorsi. I sopravvissuti sbarcarono in America “scossi e snervati”, simbolo di un’umanità che si rifiutava di estinguersi.

La ricostruzione fu affidata al piano dell’ingegner Luigi Borzì: una città a maglie larghe, sicura, igienica, ma per molti “senza anima”, nata sulla cancellazione della memoria storica. Ma il vero scandalo non fu la città di pietra, bensì quella di legno. Per ospitare gli sfollati nacquero le baracche: Giostra, Camaro, Fondo Basile. Dovevano durare mesi. Sono durate centodiciassette anni. Le “baraccopoli” di Messina sono diventate un’anomalia unica in Occidente. Generazioni nate e cresciute nel provvisorio.

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L’errore storico

Erroneamente e diffusamente si crede che le “ultime” baracche siano state abbattute nei giorni moderni. Ma quelle abbattute in via Taormina o a Fondo Fucile nulla hanno a che vedere con il terremoto del 1908. Sono, infatti, figlie dell’emergenza abitativa e non delle scosse del 1908. Quelle di allora furono abbattute già molto prima e di loro ne rimane forse solo una, monumento storico alla tragedia. Quelle di cui ancora oggi Messina è piena sono una stratificazione di emergenze successive (soprattutto i bombardamenti del 1943 e la povertà post-bellica) e di decenni di speculazione e disagio sociale, più che la sopravvivenza fisica delle strutture di inizio secolo. Il sisma ha creato il precedente e la “cultura del provvisorio”, ma non gli edifici fatiscenti che vediamo cadere oggi.

Se oggi le demolizioni non sono più spot elettorali ma seguono un cronoprogramma istituzionale, il merito non è del “masaniellismo” locale, ma di un lavoro legislativo silenzioso e mirato. La vera chiave di volta è stata la Legge Speciale per il Risanamento, fortemente voluta e portata avanti dalla sottosegretaria Matilde Siracusano. È stato il suo lavoro di raccordo con il Governo centrale a garantire quei poteri commissariali e quelle coperture finanziarie che per decenni erano mancate. Le baracche che cadono oggi – che, ribadiamo, sono figlie del dopoguerra e non del 1908 – cadono perché lo Stato, attraverso lo strumento legislativo della Siracusano, è finalmente entrato nella gestione di un dossier che la politica locale aveva trasformato in un eterno bacino di voti e precariato.

A 117 anni dall’alba che distrusse lo Stretto, Messina non ha bisogno di trionfalismi, ma di verità. Il 2025 non segna la fine dei lavori, ma forse l’inizio della fase più delicata: quella in cui, spenti i riflettori della propaganda dell’ex amministrazione De Luca, bisogna completare l’opera mattone su mattone. La lezione del 1908 oggi non risuona nelle piazze liberate (che sono ancora poche), ma nel monito che arriva dalla sismologia e dalla storia: le ricostruzioni vere si fanno con le leggi, come quella della Siracusano, e con la tecnica, non con le urla. Messina sta guarendo, ma la prognosi, contrariamente a quanto raccontato, non è ancora sciolta.

Matilde siracusano