
Secondo i media israeliani, il piano del governo avrebbe ricevuto il via libera del presidente Donald Trump. Cosa dice Witkoff, l’appello delle famiglie degli ostaggi

Il fragile filo dei negoziati per Gaza si è spezzato. Mentre il mondo attende una tregua che non arriva, l’orizzonte si oscura con la minaccia di un’escalation definitiva. Il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, di fronte a un’impasse diplomatica che Hamas vincola al miglioramento “significativo” delle condizioni umanitarie nella Striscia, ha scelto la via della forza. Secondo fonti qualificate del suo ufficio, il piano è pronto: espandere le operazioni militari fino alla “conquista totale” dell’enclave palestinese, un’opzione militare estrema che segnerebbe una nuova, sanguinosa fase del conflitto.
La determinazione di Netanyahu, quasi un dogma politico, sarebbe ulteriormente cementata da un presunto avallo internazionale di peso: quello dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Media israeliani, tra cui il noto portale Ynet, riportano che Trump condividerebbe la linea dura di Tel Aviv, convinto che Hamas stia solo giocando al rialzo, senza una reale volontà di chiudere un accordo per la liberazione degli ostaggi in cambio di una tregua. Questa convergenza crea un canale diplomatico parallelo e potenzialmente destabilizzante rispetto agli sforzi dell’amministrazione USA in carica.
LA FRATTURA INTERNA: GOVERNO CONTRO DIFESA
La direttiva che emerge dallo staff del premier è perentoria e non ammette repliche: “Il dado è tratto: puntiamo alla piena conquista. E se il Capo di Stato Maggiore non è d’accordo, dovrebbe dimettersi”. Queste parole, cariche di tensione, svelano una profonda frattura all’interno della leadership israeliana. Non si tratta solo di una scelta strategica, ma di uno scontro aperto tra il potere politico e i vertici militari.
Fonti della difesa, citate dalla CNN, esprimono un dissenso netto e motivato. L’apparato militare si oppone fermamente a un’espansione indiscriminata delle operazioni di terra, soprattutto nelle aree densamente popolate dove si ritiene che i 50 ostaggi rimasti siano nascosti. Il timore, concreto e angosciante, è che un’offensiva su larga scala si trasformi in una sentenza di morte per i prigionieri, mettendo i soldati di fronte all’incubo di causare vittime tra i propri connazionali nel tentativo di liberarli. È un dilemma che evoca i fantasmi della controversa “Direttiva Annibale”, la procedura militare che in passato autorizzava l’uso della forza per impedire la cattura di un soldato, anche a costo della sua stessa vita.
Mentre si attende la riunione decisiva del gabinetto di guerra, il Ministro degli Esteri Gideon Sa’ar tenta di presentare la linea dura come l’unica opzione rimasta sul tavolo. L’operazione allo studio, spiega, riflette “il desiderio di vedere tutti gli ostaggi tornare e il desiderio di vedere la fine di questa guerra dopo il fallimento dei colloqui per un accordo parziale”. Una giustificazione che, tuttavia, non placa le crescenti polemiche.
IL NODO AMERICANO: LA DOPPIA DIPLOMAZIA DI TRUMP
A complicare ulteriormente il quadro è l’attivismo dell’entourage di Donald Trump. L’inviato speciale dell’ex presidente per il Medio Oriente, Steve Witkoff, sta portando avanti una propria agenda diplomatica. Dopo un lungo e intenso incontro di tre ore con le famiglie degli ostaggi israeliani, Witkoff ha delineato una proposta tanto ambiziosa quanto rigida, che si discosta dalle caute mediazioni ufficiali.
“Il nostro piano non è quello di estendere la guerra, ma di porvi fine”, ha dichiarato Witkoff, secondo quanto riportato dall’Hostages and Missing Families Forum. “Pensiamo che i negoziati debbano essere modificati in modo da essere ‘tutto o niente’. Porre fine alla guerra e riportare a casa tutti i 50 ostaggi contemporaneamente: questa è l’unica via”. Questa formula “all-in”, che promette una soluzione definitiva, esercita un forte fascino su una parte dell’opinione pubblica israeliana, ma rischia di sabotare i complessi meccanismi del negoziato. Witkoff ha poi aggiunto un monito severo: “Qualcuno sarà da biasimare” se gli ostaggi non torneranno a casa vivi, una frase che aumenta la pressione su Netanyahu ma anche su Hamas.
L’ANGOSCIA DELLE FAMIGLIE E L’ACCUSA A NETANYAHU
Al centro di questo ciclone politico e militare c’è il dramma umano dei prigionieri e delle loro famiglie. La recente pubblicazione da parte di Hamas di un video che mostra due ostaggi – Evyatar David e Rom Braslavski – visibilmente deboli, emaciati e sofferenti, ha avuto l’effetto di una deflagrazione emotiva in Israele. Dei circa 50 ostaggi ancora a Gaza, si stima che almeno 20 siano ancora in vita.
Netanyahu ha reagito con durezza, interpretando il video come l’ennesima prova della crudeltà del nemico. “Queste immagini dimostrano che Hamas non vuole un accordo. Vogliono spezzarci con questi video orribili, con la falsa propaganda dell’orrore che stanno diffondendo in tutto il mondo”, ha dichiarato.
Ma la sua lettura è apertamente contestata da chi, da mesi, vive nell’angoscia. Il forum che rappresenta i familiari ha rigettato con forza la logica della guerra a oltranza, lanciando un’accusa diretta e pesantissima contro il proprio governo. “Netanyahu sta preparando il più grande inganno di tutti. Le ripetute affermazioni di poter liberare gli ostaggi attraverso la vittoria militare sono una menzogna e una frode pubblica”. Per loro, la via militare non è la soluzione, ma parte del problema.
L’appello che si leva dal forum è un grido che si contrappone al rumore delle armi. Chiedono a Israele e ad Hamas di deporre l’intransigenza e di trovare un accordo immediato per “riportare a casa i 50 ostaggi, porre fine alla guerra e poi, solo poi, iniziare a ricostruire e far rivivere Israele”. Una richiesta di umanità e pragmatismo che risuona come l’ultima speranza prima del baratro.

