
Mentre il leader della Lega agita lo spettro delle denunce strumentali, trattando i magistrati come incapaci di distinguere la verità dalla calunnia, la riforma scivola nel pantano dei rinvii. Un’offesa all’intelligenza e alle vittime, costrette ad aspettare i tempi biblici di una politica che ha più paura delle donne che degli stupratori.


di GIUSEPPE BEVACQUA
Siamo alle solite. Nel Paese dove lo stupro è ancora, sotto la crosta dell’ipocrisia borghese, considerato un incidente di percorso o una goliardata finita male, arriva il Ministro Salvini a spiegarci di cosa dobbiamo avere paura. Non della violenza, no. Dobbiamo avere paura delle donne.
Le parole del vicepremier sono pietre, e vanno pesate per quello che sono, senza girarci attorno. Quando Salvini dice che il consenso esplicito «lascia spazio a vendette personali» e che rischiamo di «intasare i tribunali», sta rispolverando il più vecchio e logoro degli argomenti patriarcali: la diffidenza verso la vittima.
Cosa vuol dire davvero? Vuol dire che, nella testa di chi ci governa, la donna che denuncia è sospetta a prescindere. È la riedizione aggiornata della “tentazione” o del “se l’è cercata”, solo che stavolta si veste da preoccupazione giuridica. Dire che un consenso «informato e attuale» crea il caos significa ammettere che distinguere tra sesso e stupro è troppo difficile, troppo faticoso per i nostri giudici e per i nostri maschi. Significa che chiedere a un uomo di accertarsi che l’altra persona sia d’accordo è un onere insopportabile, una trappola.
Salvini teme le «vendette personali». Ma in quale Paese vive? In Italia, denunciare uno stupro è un calvario, non una vendetta. È un percorso a ostacoli fatto di interrogatori umilianti, di tempi biblici, di sguardi giudicanti. L’idea che una donna (o un uomo) si svegli la mattina e decida di rovinarsi la vita affrontando un processo per violenza sessuale solo per fare un dispetto a un ex amante è una favola nera che piace ai bar dello sport, ma che non sta in piedi nelle aule di giustizia. Eppure, il messaggio passa: tuteliamo il presunto carnefice dalla presunta bugiarda. Il reato va «circoscritto», dice lui. Come se la libertà sessuale fosse un recinto da stringere il più possibile per non disturbare il manovratore.
C’è poi un’amnesia colpevole, o forse una malafede tattica, nel ragionamento di Salvini. Il Ministro parla come se in Italia non esistessero i tribunali, come se i giudici fossero dei notai ciechi pronti a timbrare qualsiasi vendetta privata trasformandola in sentenza di condanna.
È un principio che viene completamente ignorato, spazzato via dalla foga di spaventare l’elettore maschio: grazie a Dio, esiste la Magistratura. Esiste quella capacità di indagine, di scavo, di comprensione dei fatti che è il mestiere del giudice. Un processo per stupro non è un distributore automatico dove inserisci una denuncia falsa ed esce una condanna. È un vaglio, spesso doloroso, sempre rigoroso.
Salvini dimentica, o finge di dimenticare, che il “consenso” non è una parola magica che spegne il cervello di chi giudica. I magistrati sono lì apposta per distinguere il grano dal loglio, il dramma dalla calunnia, la violenza dal rancore. Dire che una norma più chiara sul consenso “intaserebbe i tribunali” di vendette significa dare degli incompetenti a migliaia di giudici e pm. Significa sostenere che il nostro sistema giudiziario non è in grado di riconoscere una menzogna da una verità. E alla luce delle sue ultime vicende giudiziarie se ne capisce il “suo” senso.
È il solito vizio del populismo di governo: scavalcare le garanzie, diffidare dei controllori, vendere la paura che lo Stato di Diritto sia una trappola per l’uomo comune. Invece la trappola è proprio questa: far credere che senza il “freno” della politica, la giustizia impazzirebbe. Non è così. I giudici sanno fare il loro lavoro. È la politica, semmai, che dovrebbe iniziare a fare il suo: scrivere leggi civili, invece di agitare fantasmi.
La politica, appunto, quella dei tempi morti e delle rassicurazioni che sanno di beffa. L’avvocato Giulia Bongiorno, che della Lega è senatrice ma che in tribunale ci va per mestiere, fa il pompiere. «Nessuno si deve permettere di dire che si vuole affossare la legge», tuona. Ci dice di stare tranquilli, che a gennaio sarà pronta, a febbraio si vota.
Ma febbraio, onorevole Bongiorno, è un’eternità.
Mentre voi discettate di virgole, di tecnicismi e avete il terrore che un “sì” debba essere davvero un “sì”, e di quanto può pesare un “no”, la realtà non aspetta i vostri comodi. La violenza sessuale non va in vacanza, non aspetta il calendario dei lavori parlamentari, non si ferma perché c’è la legge di bilancio o perché bisogna mediare tra le paure elettorali della Lega e la necessità di sembrare civili.
Dire che la legge è impantanata non è un insulto, è la cronaca. Ogni giorno perso in Commissione a cercare di annacquare il concetto di consenso è un giorno regalato alla cultura della sopraffazione. Si ha l’impressione che a Palazzo interessi più proteggere gli uomini da ipotetiche accuse false che le donne da reali violenze vere.
Se questa è la riforma, se la premessa è che il consenso chiaro è un pericolo per l’ordine pubblico, allora ditelo chiaramente: avete paura che le regole cambino davvero. Avete paura che il “silenzio-assenso” su cui si sono basati secoli di soprusi non valga più. Il resto è fumo negli occhi per coprire l’immobilismo di chi, sotto sotto, pensa che in fondo le cose vadano bene così.










