Quei proclami senza pudore: la politica ridotta a palcoscenico per l’individualismo.


di GIUSEPPE BEVACQUA
Che le democrazie, antiche o moderne che siano, non abbiano bisogno di eroi, è cosa nota. Hanno assai più bisogno di uomini normali, gente che lavora nell’ombra rispettando le regole e usando il cervello, senza la pretesa di “saltare” la storia per accomodarsi direttamente nel mito. Lo ricorda, con precisione da storico, Marco Bettalli nel suo saggio “Alcibiade e la democrazia ateniese”. Un libro che sbatte in faccia quanto sia moderna, e attuale, la figura controversa di quel rampollo dell’Atene del V secolo a.C., seppur minimamente non raffrontabile con alcuna delle figure politiche moderne.
Alcibiade voleva tutto. Voleva essere il successore di Pericle, morto di peste nel 429, ma non ci riuscì mai. E dire che gli ateniesi gli perdonarono l’imperdonabile: la disastrosa spedizione in Sicilia, il sospetto sfregio delle erme (le colonne falliche sacre ad Hermes), persino la sua bellezza sfacciata e la sua prepotenza.
Era l’idolo dei giovani, con quel suo stile oratorio e la frequentazione “alla moda” di Socrate, che i vecchi guardavano con sospetto. Eppure, non divenne mai Pericle. Perché? Perché era divorato da una considerazione mostruosa di sé stesso, convinto di una distanza incolmabile tra lui e la “gente comune”.
Sotto la vernice dorata, c’erano arroganza, imprudenza, una voglia matta di trasgressione. Era “sopra le righe”, come lo definiremmo oggi, persino per un aristocratico del suo tempo. Eppure, questo non gli impedì di ottenere comandi e un ruolo centrale. Il suo messaggio era chiaro: «Unitevi a me, perché io sono superiore a voi». Si proponeva come “Il Risolutore”, l’uomo che avrebbe salvato Atene da tutto.
Fu lui, si dice, a suggerire a Pericle di non preoccuparsi di come render conto degli ottomila talenti spariti, ma, piuttosto, di come non farlo. Magari, aprendo un bel contenzioso armato con Sparta. Uno dei primi casi di strategica distrazione di massa.
Il suo individualismo era tale che la democrazia, per lui, era solo un contenitore. Un utile palcoscenico per soddisfare le proprie ambizioni. Si considerava una “star” e, in quanto tale, aveva solo bisogno di un pubblico. Il più ampio possibile.
Oggi, per fortuna o purtroppo, non si vedono figure della statura (seppur controversa) di Alcibiade. Ma la politica, soprattutto quella nostra locale, ha i suoi “imitatori scarsi” e di questi, francamente, ne abbiamo le tasche piene.
Sono questi i nipotini “scarsi” di Alcibiade. Non hanno la sua cultura, né forse il suo coraggio fisico, ma ne hanno ereditato la stessa, identica fame. Non la fame di potere per governare, ma la fame di mera approvazione e di potere personale.
Li vediamo sbracciarsi sui palchi, sbraitare nei microfoni, usare i social media esattamente come Alcibiade usava l’agorà: un teatro per il proprio ego smisurato. Si agitano, urlano, promettono soluzioni miracolose, si propongono come “Risolutori” di problemi che spesso hanno contribuito a creare.
Sono disposti a tutto pur di conquistare il consenso che alimenta il loro potere personale. Anche a suggerire guerre, magari non con le triremi ma combattute a colpi di tweet e divisioni sociali, contro nemici inventati e sempre nuovi (i “poteri forti”, “l’Europa”, “gli altri”) pur di non dover render conto della propria incompetenza. Capaci di ondivagare tra gli schieramenti alla bisogna, sempre personale, si intende.
Non sono statisti. Lo statista, come abbiamo detto in apertura, lavora nell’ombra per la comunità. Questi sono infimi demagoghi. Amano mettersi in mostra, confondono il bene pubblico con l’applauso privato.
Ma c’è un finale, già scritto. Il pubblico, prima o poi, si stanca. Si stanca di ascoltare sempre i soliti schemi oratori, le solite urla, i soliti proclami. E alla fine vede che oltre le parole, oltre il fumo della propaganda, c’è solo un individuo disperatamente affamato di conferme.
E di questo, francamente, il popolo non sa che farsene. Altro che novelli Alcibiade.











