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L’urlo silenzioso di una minoranza: Save the children “senza filtri”, viaggio nell’Italia che ha dimenticato come si cresce​

- 14/11/2025
giovani disoccupati

Gli adolescenti non sono “sdraiati”, come qualche osservatore superficiale ama definirli. Sono in piedi, ma barcollano perché il terreno sotto i loro piedi – quel terreno fatto di famiglia, scuola, prospettive future, ambiente – trema.

MESSINA, 14 Novembre 2025 – Esiste un Paese parallelo, incastrato nelle pieghe del nostro stanco Stivale, che non compare sulle mappe politiche ma che è infinitamente più accidentato di qualsiasi catena montuosa. È il Paese delle “Adolescenze”, un plurale d’obbligo perché non esiste più un modo univoco, lineare, di avere sedici anni oggi. Leggendo le oltre trecento pagine del XVI Atlante dell’Infanzia a Rischio di Save the Children, intitolato significativamente “Senza Filtri”, emerge un affresco impietoso. Non tanto dei ragazzi, che si dibattono come possono in un mondo che non hanno costruito loro, quanto di noi adulti, incapaci di decifrare un codice che è mutato sotto i nostri occhi distratti.​

Siamo di fronte a un inverno demografico che ha i tratti di una glaciazione. Oggi, in Italia, gli adolescenti tra i 13 e i 19 anni sono poco più di 4 milioni, appena il 6,86% della popolazione. Nel 1983, quando i boomer che oggi comandano avevano i brufoli e i sogni intatti, erano il doppio. Sono una minoranza numerica, contano poco nelle urne elettorali, e forse proprio per questa irrilevanza politica ci permettiamo il lusso criminale di ignorare il loro grido, che è muto ma assordante.​

La guerra civile del corpo

​Il primo dato che colpisce come un pugno nello stomaco riguarda il rapporto bellico che questi ragazzi intrattengono con la propria immagine. Viviamo nell’era della “vetrinizzazione” dell’io, dove apparire è l’unico modo certificato per esistere, e il conto da pagare è salatissimo. Il 44,1% degli adolescenti si dichiara insoddisfatto del proprio corpo.

Ma c’è di peggio. C’è un dolore che non trova parole e diventa azione violenta contro la propria carne.​L’autolesionismo, il tagliarsi la pelle per sentire qualcosa che non sia il vuoto, è un fenomeno in crescita allarmante. I ricoveri per disturbi del comportamento alimentare sono esplosi dopo il Covid e non sono mai tornati ai livelli precedenti. E se il corpo non piace, se la realtà è troppo spigolosa, la si droga o la si seda.

L’uso di psicofarmaci senza prescrizione medica è una piaga che si allarga nel silenzio delle nostre case: lo fa il 16,3% delle ragazze e il 7,5% dei ragazzi nell’ultimo anno. Non vanno dallo spacciatore all’angolo della strada; saccheggiano l’armadietto dei medicinali di mamma e papà per trovare ansiolitici, per spegnere l’ansia da prestazione, per dormire, per non sentire più quel rumore di fondo che è la vita.​

È la generazione dell’ansia. Non quella fisiologica che precede un esame, ma un’ansia esistenziale, pervasiva. E mentre noi discutiamo di massimi sistemi, i reparti di neuropsichiatria infantile sono al collasso, costretti – in una vergognosa promiscuità – a ricoverare ragazzini nei reparti psichiatrici per adulti perché mancano i letti e le strutture dedicate.​

Eremiti nella folla digitale​

Li abbiamo chiamati “nativi digitali”, pensavamo che la tecnologia li avrebbe resi cittadini del mondo. Invece, rischiano di diventare eremiti digitali. L’Atlante ci sbatte in faccia una realtà che è un paradosso vivente: sono la generazione più connessa della storia dell’umanità, eppure la più sola.​

Si è triplicato, dal 2019 al 2022, il numero dei cosiddetti “lupi solitari”, ragazzi che non vedono mai gli amici nel tempo libero, passando dal 15,8% al 39,4%. Si chiudono in camera, ma non per leggere o sognare: per sprofondare nello schermo. Il 39,4% degli adolescenti passa oltre tre ore al giorno sui social media, in un’iperconnessione che svuota le relazioni invece di riempirle, creando un vuoto pneumatico dove l’altro è solo un avatar o un like.​

C’è un termine giapponese, Hikikomori, che ormai è entrato prepotentemente nel nostro lessico quotidiano: il ritiro sociale volontario. In Italia, circa 54 mila studenti delle superiori si sono isolati per più di sei mesi, non uscendo di casa, non andando a scuola, non vedendo nessuno. Altri 60 mila lo hanno fatto per periodi tra i tre e i sei mesi.

Sono numeri da epidemia silenziosa, intere classi che spariscono nel nulla.​E in questo deserto relazionale si insinua un nuovo surrogato affettivo: l’Intelligenza Artificiale.

Il dato è agghiacciante: il 41,8% degli adolescenti ammette di aver chiesto aiuto a ChatGPT o simili perché si sentiva solo, triste o ansioso. Si confidano con una macchina, con un algoritmo, perché evidentemente non trovano un essere umano – un genitore, un insegnante, un amico – disposto ad ascoltarli senza giudicare. È il fallimento definitivo della nostra capacità di ascolto.​

La scuola: un luogo che giudica, non accoglie​

E la scuola? Quella che dovrebbe essere l’ascensore sociale, il luogo della formazione e dell’incontro per eccellenza? I dati ci dicono che è diventata, per troppi, una fonte di stress insopportabile, un tribunale permanente.​

Oltre la metà delle diciassettenni (52%) si dichiara “molto stressata” dalla pressione scolastica. In Italia si fanno troppe assenze, sintomo di un malessere profondo: il 60% dei quindicenni ha saltato almeno un giorno di scuola nelle due settimane precedenti la rilevazione, contro una media OCSE del 20%. Non si marina la scuola per andare al mare, si marina perché si sta male lì dentro, perché l’ansia da prestazione schiaccia la voglia di imparare.​

C’è poi la questione della dispersione scolastica, quel “furto di futuro” che colpisce soprattutto il Mezzogiorno. Se la media nazionale di abbandono è al 9,8%, in Sicilia schizza al 15,2%. È una scuola che segrega, che divide invece di unire. Se hai genitori laureati, farai il liceo; se vieni da una famiglia svantaggiata o hai un background migratorio, verrai indirizzato verso istituti tecnici o professionali, spesso contro le tue reali aspirazioni.

I dati parlano chiaro: nei licei, gli studenti di origine straniera sono appena il 4,1% dei diplomati.​

Manca l’ascolto, manca il supporto. Il 94% degli studenti chiede a gran voce lo psicologo a scuola, una figura stabile, non un progetto a tempo. Ma la politica cincischia, le leggi si arenano per mancanza di fondi, e intanto l’ambulanza arriva nel cortile della scuola per soccorrere l’ennesimo attacco di panico durante una verifica.​

Amori tossici e nuove violenze​

Anche il campo dei sentimenti, rifugio storico dell’adolescenza, è minato. Le relazioni si fanno “tossiche”, permeate di controllo e possesso, amplificate dalla tecnologia. Il 52% degli adolescenti in coppia dichiara di aver subito comportamenti violenti dal partner: chiamate insistenti per sapere dove si è, controllo dei social, richiesta pressante di foto intime.​

Il sexting è diffuso (il 55% delle ragazze ha inviato immagini intime), ma la consapevolezza dei rischi è bassa, e il confine tra consenso e violenza si fa labile. Manca un’educazione sessuale e affettiva strutturata nelle scuole, lasciando che sia il web – e spesso la pornografia, accessibile a più della metà dei maschi minorenni senza alcun filtro – a formare l’immaginario erotico e relazionale dei nostri figli.​

La fuga e la speranza

​Di fronte a questo quadro a tinte fosche, cosa sognano questi ragazzi? Sognano di andarsene.

Il 36,7% degli adolescenti italiani vede il proprio futuro all’estero. La percentuale sale al 58,7% tra i ragazzi di seconda generazione. Non è solo voglia di viaggiare, è sfiducia. Sfiducia di trovare un lavoro dignitoso qui (il 46,1% delle ragazze teme di non trovarlo), sfiducia in un sistema gerontocratico che sembra averli dimenticati.​

Eppure, e qui sta la contraddizione che è anche la loro forza, non sono rassegnati. C’è una brace che cova sotto la cenere. Quando gli si dà spazio, quando gli si affida una responsabilità vera e non di facciata, questi ragazzi rispondono “presente”. Lo vediamo nel volontariato, negli scout, nei comitati di quartiere per riqualificare le periferie, nelle piazze per il clima o per la pace. Vogliono “contare”, non solo “cantare”. Chiedono spazi, fisici e mentali, dove poter essere protagonisti e non solo spettatori passivi o consumatori.​

​Un atto di accusa

Abbiamo costruito una società performativa, dove l’errore è stigmatizzato e la fragilità è una colpa. Abbiamo dato loro in mano uno smartphone a dieci anni e ci siamo stupiti se a quindici non sanno guardarci negli occhi, mentre noi eravamo troppo occupati a guardare i nostri.​

Gli adolescenti non sono “sdraiati”, come qualche osservatore superficiale ama definirli. Sono in piedi, ma barcollano perché il terreno sotto i loro piedi – quel terreno fatto di famiglia, scuola, prospettive future, ambiente – trema.​

Se vogliamo che questo inverno demografico e sociale non diventi un’era glaciale irreversibile, dobbiamo fare l’unica cosa che serve davvero e che costa fatica: smettere di parlare di loro e iniziare a parlare con loro. Accettare il loro dolore senza sminuirlo, offrire spazi senza occuparli, dare fiducia senza chiedere garanzie immediate. Ascoltare quel silenzio, prima che diventi definitivo.

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