
Floridia (M5S) incalza Nordio sul caso Bertè e sui ritardi della legge anti-SLAPP: «Nonostante la direttiva Ue e l’assoluzione dell’Ordine, le azioni intimidatorie continuano. Il Ddl del governo è inidoneo a fermare le liti temerarie»

ROMA — Capita che nonostante si sia agito con correttezza professionale — certificata nero su bianco dall’Ordine dei Giornalisti — si rischi di rimanere stritolati per anni in un ingranaggio giudiziario che ha un solo, reale obiettivo: il silenzio per sfinimento. È il paradosso delle cosiddette SLAPP (Strategic Lawsuits Against Public Participation), le cause temerarie che trasformano i tribunali in armi di pressione contro chi fa informazione. Una ferita aperta nello stato di diritto su cui ora i fari del Senato tornano ad accendersi con urgenza.
Il caso che fa da innesco politico è emblematico: quello del cronista messinese Fabrizio Bertè. Nonostante il Consiglio di disciplina nazionale abbia stabilito, con una delibera del 21 ottobre 2025, che il giornalista ha «correttamente esercitato il diritto a esprimere la propria opinione», Bertè rimane impigliato in una rete di procedimenti civili e penali. È partendo da questo cortocircuito — dove la deontologia assolve ma la procedura condanna alle spese e all’angoscia — che si muove l’interrogazione a risposta scritta depositata ieri a Palazzo Madama dalla senatrice Barbara Floridia (M5S), cofirmatari Ada Lopreiato, Ettore Licheri, Luigi Nave e Gisella Naturale, tutti nelle file del Movimento 5 Stelle .
Il nodo politico, sollevato dagli interroganti, è il ritardo italiano nell’adeguamento alle norme comunitarie. Nonostante la direttiva europea anti-SLAPP (la 2024/1069) sia stata pubblicata nell’aprile 2024 — introducendo strumenti come il rigetto anticipato delle cause infondate e le sanzioni dissuasive per chi abusa del tribunale —, il nostro ordinamento appare ancora sguarnito. E le rassicurazioni fornite in Aula nel marzo 2024 dal vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto — che indicava nel disegno di legge sulla diffamazione (AS 466) la panacea legislativa — sembrano essersi scontrate con la realtà dei testi.
Secondo l’analisi dei senatori pentastellati, infatti, l’attuale disegno di legge governativo (AS 466) risulterebbe «strutturalmente inidoneo» a recepire i diktat di Bruxelles, mancando proprio di quei meccanismi di deterrenza — come la rifusione integrale delle spese legali a carico del querelante temerario — che costituiscono il cuore della difesa europea della libertà di stampa. Al contrario, si evidenzia come un altro testo, l’AS 616 a prima firma Lopreiato, potrebbe offrire argini più solidi, imponendo sanzioni pecuniarie proporzionali alle richieste risarcitorie gonfiate.
La questione, dunque, travalica il caso messinese citato dall’osservatorio «Ossigeno per l’informazione» e diventa un test per la tenuta del pluralismo. L’uso distorto della giustizia come arma di intimidazione — con richieste milionarie che mirano all’autocensura preventiva — rischia di comprimere gravemente i diritti costituzionali. La palla passa ora a via Arenula: l’interrogazione chiede quali iniziative «concrete e tempestive» il Guardasigilli intenda assumere per tutelare le vittime di SLAPP. Perché in un Paese dove un giornalista assolto dalla sua deontologia deve continuare a pagare avvocati per anni, il confine tra giustizia e intimidazione rischia di farsi sempre più sottile.


IL CASO “BERTE'”
Un milione e mezzo di euro e l’intimazione a rivelare le fonti. Così la «diffida monstre» ha provato a fermare l’inchiesta sull’Ateneo
La cifra ha il peso specifico di una sentenza preventiva: un milione e mezzo di euro. È questa la somma che, tra l’ottobre e il dicembre 2023, i legali di alcuni soggetti citati in due articoli di cronaca hanno intimato di versare — entro un mese — a Fabrizio Bertè, trentatreenne collaboratore precario di «Repubblica», e al suo editore.
La vicenda, ricostruita dall’osservatorio «Ossigeno per l’informazione», rappresenta un caso di scuola di quella pressione asimmetrica che schiaccia il diritto di cronaca. Al centro del contendere c’è il lavoro d’inchiesta svolto dal giornalista sugli appalti dell’Università di Messina: un affare complessivo da 37,5 milioni di euro, assegnati tramite affidamenti diretti tra il settembre e il dicembre 2021, finito sotto la lente della Procura peloritana e segnato dalle criticità rilevate dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac).
I legali dei richiedenti — figure coinvolte nelle procedure e vincitori di un concorso per dirigenti amministrativi attenzionato anche dalla magistratura catanese — non si sono limitati a contestare il contenuto degli articoli (ritenuto «scorretto e offensivo») chiedendo 500mila euro a testa per ogni pubblicazione. Nelle diffide, fatto ancor più allarmante per la tenuta del segreto professionale, si intimava al cronista di rivelare le proprie fonti.
Il tutto senza passare per la via maestra della richiesta di rettifica, strumento previsto dalla legge sulla stampa per correggere eventuali inesattezze, ma scegliendo la strada dell’aggressione patrimoniale immediata. «È facile immaginare che queste diffide ti travolgono — ha raccontato Bertè a Ossigeno —. Non schiacciano solo la tua vita lavorativa, ma anche quella personale. Sono un vero e proprio freno alla libertà di stampa». Un freno che, nel silenzio generale, rischia di trasformare il giornalismo d’inchiesta in un lusso che nessun precario può più permettersi.









