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San Giorgio, l’equivoco rossonero: quando essere “Milanesi” non significa tifare Milan

- CRONACA SICILIA
22/11/2025
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Non era tifo, era appartenenza. E non quella che si consuma sui gradoni di uno stadio, ma quella che brucia l’asfalto del quartiere San Giorgio. Tra le pieghe dell’ordinanza che ha portato agli arresti nel “parco giochi” dello spaccio, emerge un dettaglio che è quasi letteratura criminale: l’uso della fede calcistica come paravento e, allo stesso tempo, come marchio a fuoco del clan.

Nelle chat del gruppo finito nella rete dei Carabinieri, il confine tra sport e malavita era una linea sottile, tracciata con i colori del Milan. Ma il Giudice per le indagini preliminari non ha avuto dubbi: quel richiamo costante ai “milanesi” non era un omaggio a Gullit o Van Basten, ma l’orgogliosa rivendicazione dell’essere soldati dei Cursoti Milanesi.

La foto della discordia e il codice d’onore

Il sigillo sulla natura chiusa ed ermetica del gruppo arriva da una fotografia. Nello scatto, finito nella chat degli indagati, compare un giovane nipote di un esponente di spicco del clan Mazzei, storici rivali noti come “Carcagnusi”. Il ragazzo, Filippo Pellegrino, indossa una casacca del Milan. Potrebbe sembrare una convergenza di passioni, ma il commento di Seby Torrisi, uno degli indagati, gela ogni entusiasmo sportivo e ristabilisce le gerarchie criminali: «Anche i carcagnusi scelgono Milan. Loro possono essere milanisti». La sfumatura è decisiva. I rivali possono tifare, possono indossare la maglia, possono essere “milanisti”. Ma solo gli affiliati al gruppo di San Giorgio possono fregiarsi del titolo di “Milanesi”. È una questione di identità, non di pallone.

Gli adesivi e la marchiatura del territorio

Questa identità andava esibita, urlata silenziosamente per le strade. Lo scudetto rossonero era diventato un logo aziendale, trasformato in figurina adesiva da attaccare su auto e scooter. Un modo per riconoscersi, per dire “ci siamo noi”. Alessandro Caffarelli caricava nella chat le prove di questa brandizzazione criminale: fotogrammi di veicoli e persone “marcate” con lo stemma. L’entusiasmo era palpabile, con Orazio Santagati che esultava: «Ormai con questi adesivi stiamo volando».

La premonizione di Caffarelli

Ma nell’euforia del controllo territoriale, qualcuno sentiva l’odore del pericolo. Era proprio Caffarelli, ritenuto dagli inquirenti il gestore della piazza di spaccio di Misterbianco, a spegnere gli entusiasmi con una lucidità che oggi suona profetica. In un messaggio vocale invitava alla cautela sull’uso spregiudicato di quei simboli: «A poi al giudice che gli dicono: “che tifano Milan?”». Una frase che racchiude tutto: la consapevolezza della finzione e il timore che quella scusa non avrebbe retto in tribunale. E aveva ragione. Quello che per loro era un codice di riconoscimento, per il GIP è diventata la prova regina dell’associazione: non tifosi in trasferta, ma “Milanesi” padroni di casa.

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