
Se Luigi Sturzo era il fuoco e Alcide De Gasperi l’acqua, Cateno De Luca è il vapore che fischia dalla pentola a pressione.

Se Luigi Sturzo potesse leggere i comunicati stampa odierni, probabilmente chiederebbe un secondo esilio. E se Alcide De Gasperi potesse osservare l’aritmetica parlamentare proposta da Cateno De Luca, troverebbe confermata la sua paura più grande: la riduzione della politica a pura gestione tribale.
Quanto emerso durante la conferenza stampa odierna di Sud Chiama Nord, anzi di Ti amo Sicilia, emerge un capolavoro di spregiudicatezza tattica. Siamo di fronte a un ossimoro politico vivente: un aspirante statista che al mattino cita i “Liberi e Forti” e al pomeriggio suggerisce al governatore Schifani una spartizione delle poltrone degna della peggiore Prima Repubblica.
C’è un vecchio adagio della politica siciliana che dice: “Quando la nave affonda, non cambiare barca. Cambia il nome alla nave e dì che stai volando.” Cateno De Luca, però, ha fatto di meglio. Ha deciso di scendere dalla nave che lui stesso ha costruito, Sud Chiama Nord, lasciandola in balia delle correnti e di un equipaggio probabilmente smarrito, per salire su un motoscafo nuovo di zecca, lucido e personale, battezzato “Ti Amo Sicilia”.
L’annuncio della conferenza stampa odierna non è una semplice mossa tattica. È un’operazione di ingegneria politica spietata: la creazione di una bad company (il vecchio partito) dove lasciare i debiti politici e l’usura del tempo, e il lancio di una newco (il Centro Studi) immacolata, con cui presentarsi come il salvatore super partes.
In questo scenario, Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi non sono più solo modelli citati a sproposito: diventano ostaggi di una narrazione che ne stravolge il pensiero per giustificare un trasformismo acrobatico.
L’annuncio del “Governo di Liberazione”, che verrà presentato il 18 gennaio a Caltagirone. La scelta del luogo non è geografia, è teologia politica. Andare nella città natale di Sturzo significa tentare un’appropriazione indebita del “mito fondativo” del cattolicesimo democratico.
De Luca scrive che il suo governo “non è uno slogan”. Eppure, l’intera operazione ha i tratti del marketing politico più che dell’istituzione. Un governo che non governa, una giunta ombra che non firma decreti, è per definizione un esercizio teorico, o meglio, una pressione mediatica. C’è un passaggio rivelatore: De Luca cita De Gasperi invocando “chiarezza di idee, precisione di linguaggio, distinzione delle responsabilità”. Ma la citazione si scontra con la realtà: De Gasperi usava la chiarezza per unire le forze democratiche contro gli estremi; De Luca usa questa “chiarezza” per costruire un fortino personale (“La Sicilia al di sopra dei partiti”, che tradotto significa: “La Sicilia sotto il mio partito”).
De Luca dice: “Non svolgerò più attività di partito… entra in campo il Centro Studi”.
Traduzione dal politichese: De Luca si sfila dalla mischia quotidiana del partitino che ha mostrato limiti evidenti alle scorse Europee e nelle suppletive. Abbandona la ciurma. Lascia a bordo i deputati regionali e quello nazionale eletti sotto quel simbolo, i sindaci che ci hanno messo la faccia. Li lascia a gestire la “ditta”, mentre lui si eleva a “Padre della Patria” siciliana, libero dai vincoli di segreteria, libero di fare accordi trasversali che un leader di partito non potrebbe fare.
Così se Sud Chiama Nord fallisce, colpa del partito. Se “Ti Amo Sicilia” vince, merito di Cateno. De Luca sta dicendo ai suoi: “Io vado avanti, voi vedete di starmi dietro, ma non sulla mia stessa carrozza”.
Per giustificare questo sganciamento, De Luca usa Don Luigi Sturzo come un grimaldello. Cita l’Appello ai Liberi e Forti per dire: “La Sicilia al di sopra dei partiti”.
Qui sta la manipolazione storica. Il vero Sturzo non voleva stare “sopra” i partiti nel senso di annullarli o scavalcarli con il personalismo. Sturzo fondò il Partito Popolare proprio perché credeva nella forma-partito come strumento essenziale di democrazia organizzata, per dare voce alle masse cattoliche che fino ad allora erano disorganiche. Sturzo credeva nella pedagogia politica, nella struttura, nella formazione della classe dirigente. De Luca fa l’esatto opposto: disintermedia. Crea un “Centro Studi” (che non ha congressi, non ha tesserati con diritto di voto, ha solo un capo) per non dover rispondere a nessuno se non a se stesso. Usa Sturzo per uccidere la forma-partito e instaurare il plebiscito personale. Il prete di Caltagirone, che rifiutava il culto dell’uomo forte (Mussolini), inorridirebbe di fronte a un leader che dice “Io sono il progetto”.
Cencelli 4.0
Il velo di nobiltà sturziana cade rovinosamente quando De Luca suggerisce a Schifani di azzerare la giunta usando un metodo “semplice, chiaro e matematico”: un assessore ogni quattro deputati.
È qui che il castello ideologico crolla. Sturzo predicava la moralità della politica contro il clientelismo. De Luca, invece, propone la scientificizzazione della lottizzazione. Il vero De Gasperi non ha mai fatto governi col bilancino del farmacista. Quando formò i suoi otto governi, escluse le estreme (PCI e MSI) non per matematica, ma per scelta di campo (atlantismo, democrazia, libertà). De Gasperi sceglieva gli uomini (come Einaudi o Vanoni) per la loro competenza tecnica e morale, non per “accontentare i capi tribù”, come dice testualmente De Luca.
L’espressione usata da De Luca, infatti, — “tutti i capi tribù che hanno alimentato queste faide verranno accontentati” — è l’antitesi del degasperismo. È la certificazione del feudalesimo politico. De Gasperi usava la politica per servire lo Stato; De Luca suggerisce a Schifani di usare lo Stato (gli assessorati) per servire i feudatari e placare le loro faide. Definire i capicorrente “capi tribù” e suggerire di “accontentarli” per togliere loro alibi è la negazione assoluta dell’interesse pubblico. È il Manuale Cencelli elevato a dottrina costituzionale. La contraddizione è stridente: come si può, nello stesso giorno, lanciare un “appello ai liberi e forti” (che presuppone ideali) e proporre una “pace dei bravi” basata esclusivamente sul peso numerico delle correnti (che presuppone cinismo)?
L’invito a ripristinare gli assessori della DC di Cuffaro, poi, è la ciliegina sulla torta della contraddizione. De Luca si erge a moralizzatore, ma difende il perimetro di potere di un partito che rappresenta esattamente quel sistema di “vecchia politica” che a parole dice di voler abbattere. De Luca si erge a paladino del garantismo (“non avevano nulla a che vedere con dinamiche giudiziarie”). Qui il cortocircuito è totale. De Luca, che si presenta come il “Liberatore” e il nuovo Sturzo (che fu esiliato dal fascismo e osteggiato dalle gerarchie corrotte), si fa avvocato difensore della continuità di potere di un sistema che ha governato la Sicilia per vent’anni. Sturzo chiedeva il rinnovamento morale. De Gasperi chiedeva la sobrietà. De Luca chiede le poltrone per gli amici di Cuffaro in nome della “matematica parlamentare”.
L’Intergruppo: il Cavallo di Troia
Il terzo comunicato, sulla nascita dell’intergruppo parlamentare, è il braccio operativo della strategia. Se Caltagirone è il palcoscenico e il consiglio a Schifani è l’esca, l’intergruppo è la trappola. De Luca sa che la maggioranza di centrodestra è sfilacciata. Creare un “gruppo misto di fatto” sotto l’egida del “Governo di Liberazione” serve a due scopi: offrire un approdo sicuro ai malpancisti del centrodestra (i “liberi” di cambiare casacca); costruire un parlamento parallelo che svuoti di senso quello ufficiale.
De Luca definisce questa mossa come un modo per “colmare il vuoto di iniziativa riformatrice”. In realtà, è un’OPA ostile sull’Assemblea Regionale Siciliana. Non è riformismo, è occupazione degli spazi.
De Luca usa Sturzo come un abito della festa per darsi un tono istituzionale e accreditarsi presso l’elettorato moderato e cattolico. Ma quando si tratta di “fare politica”, usa gli strumenti della più vecchia partitocrazia: la conta numerica, la soddisfazione dei “capi bastone”, la minaccia di crisi.
Cateno De Luca, cioè, sta cercando di dimostrare che Schifani non sa governare, proponendo però, per risolvere la crisi, le stesse logiche spartitorie che hanno paralizzato la Regione. È un De Gasperi al contrario: non un uomo che media per costruire lo Stato, ma un uomo che usa le debolezze dello Stato per costruire se stesso, mentre l’operazione “Ti Amo Sicilia” sembra un capolavoro di cinismo tattico. Cateno De Luca sta “liberando” se stesso: si libera del peso morto di Sud Chiama Nord, scaricando sui suoi colonnelli la gestione ordinaria; si libera della coerenza ideologica, usando Sturzo e De Gasperi come paraventi nobili per nascondere una proposta di spartizione brutale del potere (1 ogni 4); si libera del ruolo di oppositore intransigente, offrendo a Schifani una ciambella di salvataggio (l’azzeramento matematico) che, se accettata, lo renderebbe de facto il regista occulto della maggioranza.
Il “Governo di Liberazione” rischia di essere, alla fine, solo la liberazione di De Luca dai suoi vecchi compagni di viaggio, lasciati sul molo a salutare il Capitano che naviga verso nuovi orizzonti, con la bandiera di Sturzo a poppa e la calcolatrice degasperiana in mano.










