
De Luca scarica Schifani, divenuto ingombrante zavorra giudiziaria, e si autoproclama erede di Ferruccio Parri. Una citazione storica talmente aulica da suonare grottesca nel teatrino della politica isolana.


di GIUSEPPE BEVACQUA
La regola aurea nel teatro della politica nostrana, una regola che nemmeno la creatività barocca della Sicilia riesce a smentire, e che in politica non esistono padri, ma solo orfani in attesa di eredità, o figliuol prodighi che tornano a casa per svaligiarla. E così, nella Palermo dei misteri e dei veleni, è andato in scena un ennesimo atto di farsa politica: Cateno De Luca ha ufficialmente ripudiato il genitore.
Renato Schifani, fino a ieri l’altro blandito, corteggiato e appellato con l’impegnativa etichetta di “padre nobile”, è stato degradato sul campo. Non è più il saggio patriarca della coalizione, ma un ingombro. Lo ha detto chiaro e tondo oggi “Scateno”, con quella sua verve da capopopolo che mescola Masaniello al marketing digitale: il carro del Governatore non tira più. È un calesse con le ruote sgonfie, appesantito da zavorre giudiziarie, inchieste e quello sgradevole odore di scandalo che, in Trinacria, ha spesso il potere di trasformare i vincenti in lebbrosi nel giro di un mattino.
Il “padre nobile”, insomma, non serve più. E quando un padre non serve, nella spietata logica del potere, come nelle migliori tragedie, lo si uccide, metaforicamente in conferenza stampa.
Ma De Luca, che della politica è animale di fiuto finissimo e di modestia assai parca, non si limita a distruggere. Egli vuole costruire. O meglio, vuole incarnare. Dismessi i panni del figlioccio deluso, ha indossato, con un salto mortale della fantasia che lascia attoniti, la giacca lisa e austera di Ferruccio Parri (De Luca sa chi era?) e del suo Governo di Liberazione, quello vero che ci ha consegnato la Storia, con la “S” maiuscola.
Sì, avete capito bene. Il Cateno di Fiumedinisi si propone oggi come il novello “Maurizio” della Resistenza, colui che nel 1945 sedette a capotavola per mettere d’accordo il diavolo e l’acquasanta, comunisti e liberali, nel nome della ricostruzione morale dell’Italia. Il paragone, converrete, è ardito. Accostare la figura ieratica e tragica di Parri, che cercava di rimettere in piedi un Paese raso al suolo, alle manovre di posizionamento dell’ex sindaco di Messina, suscita quel tipo di sorriso amaro che ci coglie quando vediamo la storia ripetersi non come tragedia, ma come avanspettacolo.
È troppo? Perbacco, sì che è troppo. Ma in Sicilia l’iperbole è l’unità di misura minima della conversazione politica.
La verità, spogliata dalle metafore resistenziali, è assai più prosaica. De Luca è rimasto ondivago per mesi, sospeso tra la tentazione di rovesciare il tavolo e la speranza che dal tavolo cadesse qualche briciola sostanziosa. Ha atteso un segnale, un cenno, una cooptazione che l’ormai ex “padre nobile” si è guardato bene dall’inviare. E l’attesa, si sa, logora chi non ce l’ha (il potere).
Dilaniato da tenzoni interne che poco hanno a che fare con i massimi sistemi e molto con i collegi elettorali, De Luca ha rispolverato il vecchio arnese del mestiere: lo “smalto d’assalto”. Quell’aggressività pirotecnica che aveva prudentemente riposto in naftalina sperando nell’accordo, e che ora brandisce come una clava.
Il tempo stringe, il cerchio si chiude e De Luca, forse stanco di recitare la parte del comprimario responsabile, ha deciso di tornare solista. D’altronde, per chiudere con una citazione che, a differenza di quella su Parri, gli calza a pennello: siamo pur sempre in Italia, nel Paese di Totò. Quindi, come diceva il Principe della risata, “ogni limite ha una pazienza”. E quella di “Scateno” è finita. Quella dei siciliani, temo sia infinita.











