
Nel giorno della retorica, la Lega frena il testo già votato alla Camera chiedendo nuove audizioni. La senatrice Musolino svela il bluff: «Nessun dubbio tecnico, sono saltati gli equilibri nella maggioranza. Dei diritti delle donne importa poco».

Hanno scelto il giorno peggiore per mostrare il volto peggiore della politica. Ieri, mentre l’Italia si riempiva di scarpe rosse e di retorica solenne per la Giornata contro la violenza sulle donne, al Senato andava in scena una commedia triste. La legge sul consenso libero, quella riforma necessaria che dovrebbe sancire un principio elementare — se non c’è consenso, è violenza — si è fermata.
La legge sul consenso libero — quella che prevede il carcere da 6 a 12 anni per chi compie atti sessuali senza un consenso «libero e attuale» — si è fermata. Una retromarcia che aleggiava da tempo, innescata, raccontano i corridoi, da un bombardamento di chat e mail sui telefoni dei senatori di maggioranza: associazioni ed esperti che chiedevano se davvero si volesse avallare il principio del consenso come elemento dirimente.
Ufficialmente, si è trattato di prudenza giuridica. La senatrice della Lega Giulia Bongiorno ha parlato di “necessità di approfondimento”. Una formula elegante, il classico linguaggio del Palazzo usato per prendere tempo, per buttare la palla in tribuna. Ma la realtà, quella che si respira nei corridoi e che emerge dai fatti, è molto più cruda. Non c’è nessun comma oscuro da chiarire, c’è solo un regolamento di conti interno alla maggioranza.
La legge era già passata alla Camera. All’unanimità. Avevamo visto la foto della stretta di mano tra la Premier Meloni e la segretaria del PD Schlein. Sembrava un momento di civiltà condivisa. Invece, arrivata a Palazzo Madama, la riforma è diventata ostaggio degli equilibri di coalizione. Si litiga su tutto, e per ripicca si blocca tutto, anche i diritti fondamentali.
I dubbi sono emersi ufficialmente alla conferenza dei capigruppo. Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega, ha tirato il freno a mano chiedendo di esaminare bene il testo. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha tentato una mediazione disperata: esame in sede redigente, niente emendamenti, pur di non macchiare la giornata con polemiche inutili. Ma il segnale era lanciato.
Un’ora dopo, in commissione, la Lega si è intestata le riserve e gli alleati si sono accodati. Il ritornello è sempre lo stesso: “Non bisogna avere fretta“, “servono gli esperti“. Troppo per le opposizioni, che hanno abbandonato l’aula per protesta.
Giulia Bongiorno ha preso atto che il ddl era arrivato solo il giorno prima, ha dato l’ok ad audizioni «mirate e brevi» e ha provato a rassicurare: «Facciamola meglio e facciamola tutti insieme questa legge». Ha riconosciuto la paternità della sinistra ma ha promesso di chiudere «in poche settimane».
L’IPOCRISIA SVELATA DALLA SENATRICE DAFNE MUSOLINO
A togliere il velo di ipocrisia ci ha pensato Dafne Musolino. La senatrice messinese di Italia Viva in Aula ha mantenuto il garbo istituzionale, ma il suo dissenso era palpabile, si leggeva chiaro tra le righe di un intervento morbido solo nella forma. È stato fuori dall’Aula, in un video affidato ai social, che la Musolino ha detto le cose come stanno, senza filtri.
“Sono molto delusa”, ha dichiarato guardando dritto in camera. Non è la delusione di una parte politica, è quella di chi vede un Paese in “colpevole ritardo”. La senatrice ha ricordato il cuore della norma: non deve essere più la vittima a dover dimostrare di essersi opposta con tutte le forze. La semplice manifestazione di assenza di consenso deve bastare a configurare il reato. È quello che succede nei Paesi civili che hanno applicato la Convenzione di Istanbul. In Italia no. In Italia si aspetta.
La Musolino ha centrato il punto nevralgico della questione: “La verità è che la legge è saltata perché sono saltati gli equilibri interni alla coalizione”. È un’accusa che non lascia spazio a interpretazioni. Dimostra che dei diritti delle donne, di quella violenza che si dice di voler combattere, alla prova dei fatti importa poco o nulla.
Ciò che è accaduto ieri al Senato è la prova che le questioni di palazzo, le tattiche di posizionamento e i dispetti tra alleati vengono prima della vita delle persone. Si dà importanza solo alle questioni politiche, ponendo in secondo piano i diritti. La “melina” della Lega non è tecnica, è politica. E il prezzo di questi giochi, come sempre, lo pagano le donne, costrette ad aspettare che i signori del voto finiscano la loro partita a scacchi.










