
Schifani esulta per i ritardi recuperati e promette lavoro, ma ignora le cure psichiatriche. Senza le comunità a doppia diagnosi, i tavoli tecnici restano solo burocrazia sulla pelle delle famiglie.

A Palazzo d’Orléans si riuniscono, monitorano, verificano. Il comunicato della Regione Sicilia sui “ritardi della legge anticrack è un trionfo letterario, ma di un genere preciso: la fantascienza burocratica. Si coniuga tutto al futuro. “Saranno operative”, “si aggiungeranno”, “toccherà a Enna”, “è imminente la pubblicazione”.
Il Presidente Schifani esulta: «Recuperati i ritardi». In un Paese normale, scusarsi per i ritardi sarebbe il minimo sindacale; qui diventa un titolo di merito, una medaglia da appuntarsi al petto mentre fuori, sui marciapiedi di Ballarò o nelle periferie catanesi, in quelle messinesi e siciliane, la carne viva dei ragazzi continua a bruciare.
Leggendo le carte, si ha la netta sensazione che la politica non sappia di cosa stia parlando. Si celebrano i camper, le unità mobili, i “drop in”. Strumenti utili, per carità, ma sono cerotti su una emorragia arteriosa. Si parla con grande enfasi di “reinserimento sociale e lavorativo”, si sventolano 4 milioni di euro per “nuovi percorsi rieducativi”. Sono parole vuote, gusci di noce senza il gheriglio.
Perché il crack non è la vecchia eroina. Il crack non è un vizio che si cura con la buona volontà o con un corso di formazione professionale finanziato dal Fondo Sociale Europeo. Il crack è una bestia che mangia il cervello, che spezza le sinapsi, che scatena una violenza paranoide immediata. Chi ne è schiavo non ha bisogno, in prima battuta, di un lavoro: ha bisogno di un reparto psichiatrico, di una attenzione medica, di quella che i tecnici chiamano “doppia diagnosi”.
Ed è qui che il comunicato tace. Assordantemente.
In Sicilia mancano le comunità a doppia diagnosi, quelle strutture ibride tra psichiatria e tossicodipendenza che sono l’unica diga contro il craving, la scimmia urlatrice che devasta la mente del dipendente. Senza queste strutture, parlare di “reinserimento” è un esercizio di stile crudele. Come si può pensare di inserire nel mondo del lavoro un ragazzo che ha il sistema neurologico in cortocircuito, se non hai prima costruito il luogo dove curare quel cortocircuito?

La Regione sembra ignorare che il crack colpisce i minori, i cervelli in formazione, creando danni spesso irreversibili. Di fronte a questa catastrofe generazionale, la risposta è l’istituzione di un “tavolo tecnico” che si riunisce una volta al mese. Si annunciano i camper a dicembre. E fino a dicembre? E dopo che il camper è passato, dove va a dormire il ragazzo che trema?
La legge c’è, dicono. Ma una legge che cammina sulle gambe dei verbi al futuro è una promessa, un proclama, non una cura. La realtà è che siamo ancora alle chiacchiere, alla burocrazia che auto-assolve i propri ritardi. La politica conta i fondi stanziati e i decreti inter-assessoriali; le famiglie contano i giorni che mancano alla fine, chiuse a chiave in casa per paura dei propri figli.
Schifani dice che “non possiamo fermarci al recupero”. Sarebbe già molto se si iniziasse davvero a farlo, il recupero. Ma quello vero, clinico, non quello di carta. Perché mentre il Palazzo pianifica il futuro, il crack si sta mangiando il presente.










