Città dalla memoria corta e tradita. A me pare che l’inerzia non sia biologia, ma una scelta storica. E la storia, io lo so, si può cambiare.


di GIUSEPPE BEVACQUA
Lo Stretto di Messina è un’immagine che porto dentro sempre con me, un sentimento fatto di amore e rabbia che provo al mattino al sorgere del sole e riprovo la sera al suo scomparire dietro le colline. Ho dentro l’amore per questa bellezza struggente, che toglie il fiato. Un sentimento che combatte con la rabbia nel vedere come l’abitudine l’abbia trasformata in una cartolina scontata per chi ci vive, quasi una colpa.
Capisco l’affetto per questa terra. Ma a me pare che l’immagine di quelle navi traghetto, così lente sull’acqua tra le due sponde, sia lo specchio della mia gente. Riflette una “pacificità” che sconfina nell’inerzia, in una rassegnazione atavica.
È come se una lunga storia di sottomissione avesse spento la ribellione, avesse insegnato ad accettare le malefatte e le espropriazioni come un destino. E questo mi indigna. Questa rassegnazione non è biologia, non patologia, è storia. E la storia si può cambiare.
Eppure, come lo Stretto, la superficie è solo una parte. Sotto quella calma apparente, so che ci sono correnti profonde, energie nascoste. C’è una faglia sismica, un’inquietudine. L’acqua stessa, mischiandosi, trova nuova energia.
Quello che manca è la consapevolezza, la memoria. Messina mi appare oggi come una figlia smemorata, una principessa che ha dimenticato la forza dei suoi antenati, la nobiltà delle sue origini. Si è adagiata in una placida presunzione, nell’attesa che qualcuno venga a salvarla.
Ma io non credo ai salvatori. Detesto la frase gattopardesca, è una condanna. Penso invece che bisogna rimboccarsi le maniche, partire da qui, dal nostro dovere, dal nostro amore, dalla nostra stessa rabbia. La forza è ancora lì, nel cuore di questa città, ma è sepolta sotto l’indolenza. E l’indolenza, quella sì, è il nostro vero nemico.











