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Noemi, uccisa a Ballarò dall’indifferenza: una morte da crack, dimenticata che pesa sulle nostre coscienze

- 23/09/2025
vucciria

​di Giuseppe Bevacqua

C’è un silenzio che uccide più della droga. È il silenzio dell’indifferenza, quello che ha avvolto gli ultimi passi di Noemi Ocello, morta a 32 anni in un vicolo di Ballarò, a Palermo, il 5 dicembre del 2020. Il suo corpo, trovato senza vita in Vicolo Discesa delle Capre, non è solo il tragico epilogo di una tossicodipendenza, ma il manifesto di un fallimento collettivo.

La storia di Noemi è la storia di un’anima che la nostra società ha prima emarginato, poi isolato e infine lasciato morire. Sola.​Noemi non era invisibile.

La sua presenza inquieta e fragile si aggirava tra le strade del centro storico, un’ombra che chiedeva aiuto con gli occhi stanchi di chi ha combattuto troppe battaglie. Ma per la frettolosa normalità dei passanti, per l’asettica burocrazia dei servizi sociali, lei era solo una dei tanti, un “caso”, un numero in una statistica. Un’etichetta infamante: “irrecuperabile”, “drogata di merda”. Un fastidio da ignorare, un problema da delegare, fino a quando il problema non svanisce, inghiottito dal buio di un vicolo.​

Eppure, dietro quella maschera di dolore e dipendenza, c’era una donna. Una figlia, un essere umano con una storia, sogni infranti e un disperato bisogno di essere amata, o almeno vista.

La sua vita, documentata in modo straziante nel libro-inchiesta “Noemi Crack Bang”, è un viaggio allucinante attraverso le mancanze di un sistema che non sa proteggere i suoi figli più deboli.

Un’esistenza vissuta ai margini, tra comunità, cliniche psichiatriche e la strada, l’ultima, crudele, dimora.​La sua morte è un atto d’accusa contro l’ipocrisia di chi si volta dall’altra parte, cullandosi nella sterile certezza del “a me non capiterà mai”.

È il frutto amaro di una cultura che condanna il drogato senza interrogarsi sul dolore che lo ha generato, che ghettizza la fragilità invece di accoglierla.

Noemi è figlia della nostra incapacità di amare, della nostra pigrizia emotiva, del nostro egoismo mascherato da perbenismo.​

Per un breve momento, la sua morte scosse le coscienze. Si parlò di lei, si scrisse, e a un anno dalla sua scomparsa, in Piazza Brunaccini, nel cuore della sua Ballarò, fu posta una pietra per ricordarla. Un monito contro l’indifferenza, un piccolo altare per una vita spezzata. Ma cosa resta, oggi, di quel ricordo? La memoria, come la vita di Noemi, rischia di perdersi, di diventare una commemorazione smarrita, un flebile sussurro nel frastuono della città.​

La vera domanda non è come sia morta Noemi, ma perché l’abbiamo lasciata morire. Perché non abbiamo saputo tenderle una mano, perché non siamo stati capaci di vedere la persona dietro la dipendenza. La sua colpa è stata quella di cadere; la nostra, quella di non averla aiutata a rialzarsi.​Noemi vive ancora. Vive nei cuori di chi non l’ha dimenticata, di chi ha avuto il privilegio di conoscerla e di chi, attraverso la sua storia, riscopre il dovere di non essere indifferente. Vive come un fantasma che ci interroga, che ci costringe a guardare le nostre crepe, le nostre omissioni. La sua morte solitaria a Ballarò non è stata una fatalità, ma una condanna emessa da una società che non ama abbastanza, che non perdona la fragilità e che, in fondo, ha paura di guardare in faccia i propri fallimenti.

E il suo ricordo perduto è la nostra vergogna più grande.

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